Sacco e Vanzetti, il mito laico in immagini

di Luca Pietro Nicoletti

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Data al 1927 un disegno di George Grosz con la Statua della Libertà che brandisce una sedia elettrica, la veste insanguinata sul fondo di una bandiera a stelle e strisce, issata su un basamento con incisi i nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, i due anarchici italiani protagonisti del clamoroso scandalo giudiziario culminato con la pena capitale, nel carcere di Charlestown (Massachussets), nella notte del 23 agosto di quell’anno.

I sette anni fra il loro arresto (5 maggio 1920) e l’esecuzione della condanna avevano dato al caso, con le sue evidenti ricadute politiche, risonanza internazionale. Ne fu un segnale eloquente, oltre al disegno di Grosz, The Passion of Sacco and Vanzetti, il ciclo di dipinti avviato da Ben Shahn nel 1929 sulla base della copiosa documentazione fotografica circolante all’epoca, ciclo nato indipendentemente dalle iniziative del comitato sorto in difesa di Nick e Bart, e destinato a fare scandalo al punto da destare l’attenzione dell’FBI, ma culminante poi, nel 1967, con la commessa ufficiale di un grande mosaico sul tema per la Syracuse University.


È la punta di un iceberg, che dalle arti belle arriva alla stampa di larga circolazione, passando dalla drammaturgia alla cinematografia, e approdando infine al graphic novel. Di quest’ultimo aspetto si hanno attestazioni precoci già nel 1921, quando il Boston Post dedica al caso giudiziario un’intera pagina illustrata a fumetti, e Pierre Claude, su L’Humanité, riproduce il disegno di una bandiera americana come sfondo a una sedia elettrica con un teschio. Non si sapeva ancora come la storia sarebbe andata a finire, sebbene «Guerra di classe» avesse intitolato un’illustrazione Mentre il boia attende. Sta di fatto, però, che fin da allora la vicenda colpisce la sensibilità degli artisti, i quali, pur relegati ai margini delle narrazioni ufficiali, contribuiscono in modo massiccio alla costruzione del mito laico di Sacco e Vanzetti, e alla sua capillare diffusione nell’immaginario collettivo. Eppure una fortuna visiva della vicenda dei due anarchici, che tenga insieme l’iniziativa di pittori e illustratori, i progetti per il teatro e il cinema, fino alla canzone napoletana, deve ancora essere scritta.


Fanno da traccia, in tal senso, i cinquantennali studi condotti da Luigi Botta, accanitamente dedito a questa storia almeno dal 1972. Il suo esordio sull’argomento, Sacco e Vanzetti: giustiziata la verità, edito da Gribaudo nel 1978, e accompagnato da un’introduzione di Pietro Nenni, poneva attenzione per la prima volta all’iconografia di Nick e Bart, e al ruolo degli artisti dentro e fuori dall’azione di propaganda. Sarebbero seguiti altri libri, volti a chiarire attraverso una serrata verifica sui documenti singoli aspetti della storia giudiziaria e dei successivi decenni, correggendo inesattezze e luoghi comuni e restituendo al tempo stesso un inedito affresco culturale e antropologico.
Nei modi della cronaca, che segue passo passo gli eventi puntando a una griglia cronologica esatta, Botta ha ripercorso e dipanato episodi trattati sbrigativamente dalla letteratura, cogliendovi una sfumatura estranea alle narrazioni ufficiali e dalle inedite implicazioni psicologiche. Ne La marcia del dolore (Nova Delphi Libri, 2017, con dvd), ad esempio, Botta ha ricostruito la cronaca dei funerali di Sacco e Vanzetti, recepiti come «corpi santi», e del viaggio delle loro ceneri (o meglio di una parte di queste) dal Massachusetts all’Italia: il Comitato nato in loro difesa, e attivo in seguito nella lotta per la riapertura del caso, riteneva che l’esposizione delle due salme durante apposite manifestazioni di protesta avrebbe contribuito a risvegliare le coscienze. Altrettanto, non potendo disporre dei corpi data la cremazione, si penserà delle ceneri, dopo un fluviale corteo che aveva accompagnato le esequie laiche dei due fino alla cremazione. Parzialmente riportate in Italia, le ceneri furono sepolte nei rispettivi paesi natali: per trent’anni, ad esempio, metà delle ceneri di Vanzetti saranno custodite da Alfonsina Brighi, che era stata il punto di contatto per la famiglia di Bartolomeo con l’America, prima di approdare alla Public Library di Boston, dove aveva trovato casa dopo alterne vicende anche la lapide commemorativa, commissionata nel 1928 a Gutzon Borglum, lo scultore dei presidenti americani al Mount Rushmore National Memorial.


Ciò che più conta è che intorno a Sacco e Vanzetti si fosse creato un grande movimento a più livelli: martiri politici, le loro vicende vengono narrate dai cantastorie che le trasportano sul piano della leggenda (con quel che ne consegue ai fini della verità storica), e tutto ciò che li riguarda diventa oggetto di tesaurizzazione per alcuni, di censura per altri. È questo il cuore di Le carte di Vanzetti, edito di recente da Aragno (pp. 142, euro15,00), in cui Botta racconta l’origine e gli sviluppi dell’archivio donato negli anni ottanta dalla famiglia Vanzetti all’Istituto storico della Resistenza di Cuneo: è l’epilogo di una storia durata quasi un secolo, che ha visto quel nucleo di documenti crescere intorno alla memoria di Bartolomeo. Non è solo una storia di carte e del loro uso, ma svela il lato antropologico delle pratiche di raccolta e «culto» delle testimonianze da parte di Luigina e Vincenzina Vanzetti, in cui sentimenti familiari e coscienza storica si intrecciano indissolubilmente intorno alle lettere scritte dal fratello alla famiglia, e prima ancora dal padre Giovan Battista negli anni da migrante in California. Luigina, la maggiore delle due sorelle, aveva compiuto un viaggio americano per assistere alle ultime ore di Bartolomeo, radunando lettere, documenti a stampa e fotografie che lo riguardarono in quei lunghi sette anni di atti processuali, e che sarebbero andati a incrementare la raccolta già gelosamente conservata nella casa di famiglia a Villafalletto. Un grande dolore stava intorno a quelle carte, oggetto di perquisizioni e sequestri da parte della polizia fascista, fino alla decisione di nasconderle del tutto fra 1942 e 1949. A lungo, per volontà paterna, la famiglia deciderà di non parlare più del caso, fino alla morte di Luigina nel 1950, quando Vincenzina, la vera protagonista di questo libro, metterà generosamente a disposizione tutti i materiali in suo possesso, consentendone la riproduzione e talvolta persino prestandoli agli studiosi.


Gli effetti non si faranno attendere: la famiglia Vanzetti diventa presto un punto di riferimento al fine di preservare la memoria di quanto accaduto, e comincia a ricevere lettere da intellettuali di varia estrazione. Accanto all’epistolario di Bartolomeo, di cui Botta sta approntando un’edizione commentata, cresce quello di Vincenzina con politici, giornalisti e artisti, che scrivono chiedendo notizie e proponendo progetti.


È il caso del Centro Attori Milano, e dell’amicizia fra Vincenzina e Mario Mattia Giorgetti, nata intorno a Sacco e Vanzetti, delitto di classe, lo spettacolo creato con l’intento di «smascherare i “meccanismi” che lo Stato americano usò per assassinare due innocenti». Non sarà invece così per il film del 1971 di Giuliano Montaldo (con Gian Maria Volonté e Riccardo Cucciolla), che pure darà un contributo alla riapertura del caso fino alla ufficiale riabilitazione di Nick e Bart nel 1977.
Numerose le lettere con Pino Reggiani, il primo in Italia, alla fine degli anni sessanta, a dedicare loro un ciclo di opere – la cui genesi è ancora da scrivere – traducendo in chiave «pop» le stesse fotografie usate da Shahn: dalla memoria, in controluce, come icone prendevano vita le sinòpie di Sacco e Vanzetti.

Il Manifesto 24 maggio 2020