Nord-Sud
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Il Paese che cambia
Sei milioni di italiani vanno all’estero, in crescita i “moderni clandestini”
di Paolo Lambruschi
Quasi il 50% dei giovani che scappano dall’Italia ha meno di 34 anni
L’Italia fuori dall’Italia continua a crescere anche se a ritmo più lento. Un popolo di quasi sei milioni, un decimo circa dei 58,8 milioni di italiani residenti in Italia e sempre più giovane. Dopo il Covid, per gli studiosi è iniziata una nuova fase della mobilità italiana con il ritor- no consistente delle migrazioni interne. Lo afferma il Rapporto italiani nel mondo (Rim) 2023 della Fondazione Migrantes della Cei, curato da Delfina Licata, presentato ieri a Roma.
Lo studio prende in esame i dati del 2022, anno in cui i movimenti migratori esterni ufficiali sono calati del 2% mentre quelli interni (1 milione 484mila) sono tornati a crescere del 4% rispetto al 2021.
In Italia la direttrice è quella classica Sud-Nord con le regioni settentrionali sempre attrattive - soprattutto Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia e Lombardia – e quelle meridionali che si spopolano, ma la mobilità italiana e internazionale si conferma complessa.
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Così il Sud arricchisce il Nord
di Gianfrancesco Turano
Oltre 5 miliardi ogni anno. Tra spesa delle famiglie e finanziamenti statali è il trasferimento di ricchezza verso il Settentrione dovuto all’esodo dei giovani. Che spacca il Paese ancora di più
Il tram numero 9 dell’Atm di Milano racconta storie diverse secondo l’ora e il giorno. Intorno al pranzo ci sono i senza fissa dimora che vanno a mettersi in fila all’Opera San Francesco di piazza Tricolore, accanto all’hotel di lusso Château Monfort. Nel fine settimana, dalla sera, il 9 diventa il mezzo di trasporto ufficiale dei giovani in transito verso i quartieri di movida attraversati dai binari: Porta Venezia, i Navigli, via Savona. Sono tirati a lucido, parlano di esami e di tesi magistrali. Non temono di affrontare i conti di bar e ristoranti dove l’autista Atm, con il suo stipendio di 1.500 euro, avrebbe paura a entrare. Come il tranviere arrivato a Milano in cerca di lavoro, i passeggeri del 9 hanno in larga maggioranza accenti del Sud appena addomesticati da quel flair meneghino che oggi significa, per dirla con il Dogui dei film dei Vanzina, «stare in pole position».
Anche quest’anno la meglio gioventù della borghesia meridionale si è spostata in massa verso gli atenei del Centronord, quelli che promettono lavoro sicuro e persino qualificato. I politecnici di Torino e Milano, la Bocconi, la Cattolica, il San Raffaele Vita e salute, la Sapienza di Roma, Iulm, Ied, Lumsa. Privato è meglio. Si entra più facilmente anche se si paga di più. Ma i figli sono pezzi di cuore. Nessuno lo sa meglio di una madre o di un padre che vivono in un Mezzogiorno travolto dalla crisi economica, demografica, dove persino le mafie ormai recalcitrano a investire.
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Luoghi e fili d'erba di Rocco Scotellaro
di Michele Fumagallo
REPORTAGE. Nel paese del poeta-sindaco, tra oblio, spopolamento, risorse, rinascita, a cento anni dalla nascita
Il telero di Carlo Levi dedicato a Rocco Scotellaro
Noi non siamo qui per fabbricare il mito di una poesia contadina; non siamo qui per nutrire la leggenda del piccolo sindaco-poeta. Siamo qui per continuare la nostra conversazione con lui». Così scriveva Franco Fortini in un intervento al convegno dedicato a Rocco Scotellaro nel 1955 a Matera. Erano passati due anni dalla morte del poeta e Fortini proseguiva: «Non ho mai creduto, è bene dirlo francamente, alla poesia che è canto di tutti. La poesia facile non esiste. Nulla di quel che è serio ed autentico è facile, né in politica né in poesia». Citare Fortini, grande ammiratore della poesia di Rocco, è obbligatorio mentre si avvicina l’aprile del 2023, centenario della nascita dell’intellettuale e poeta di Tricarico. Obbligatorio perché può esser letto come monito e invito verso le molteplici iniziative che si annunciano su Rocco Scotellaro per il prossimo anno in molti punti della Basilicata, che dimentica spesso di essere, come scriveva Amerigo Restucci in una guida del territorio, «una regione dove spesso la natura si integra all’arte fornendo aspetti di estrema originalità». Ma è bene porsi alcuni interrogativi. Si saprà resistere alla tentazione di riproporre il santino con buone intenzioni che lasciano tutto come prima o peggio? Si saprà proporre un excursus nel mondo di Rocco Scotellaro che è anche una rivisitazione critica degli anni cruciali del dopoguerra in cui si gettarono le basi nel bene e nel male del progresso della Prima Repubblica? E, soprattutto, si saprà «attualizzare» quella storia alla luce dell’imprescindibile sfondo europeo di oggi? È quel che stiamo tentando di capire anche con alcune pagine su questo giornale (vedere Alias del 23/04/22) seguendo il percorso che porterà alcuni intellettuali e cittadini a promuovere iniziative e incontri.
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TERRITORI CALPESTATI
Decisivo e irrilevante Il sud è vittima dei partiti
di Marco Damilano
Nel mezzogiorno il Pd affonda tra gli abbandoni e la destra si prepara a vincere, dopo la meteora del M5S
Dalla Puglia alla Sicilia, le forze politiche tornano a candidare vecchie riserve che soffocano la rappresentanza
Il sud viene così riconsegnato ai suoi stereotipi e alle organizzazioni più elementari: le famiglie, i viceré e i clan
«La lunga strada nel Pd per me finisce qui», ha annunciato ieri Gianni Pittella, l’uomo del partito in Basilicata, già vice presidente del parlamento europeo. Ma il suo non è stato l’unico addio degli ultimi giorni. Con una tessera tagliata a metà, spedita il 18 agosto al segretario provinciale del Pd di Salerno Enzo Lucano, Alfonso Andria ha annullato la sua iscrizione al partito: «Da tempo non sono più a mio agio. Il ripiegamento entro logiche padronali, il ricorso continuo a metodi assolutamente opposti ai principi ispiratori del Pd, pur di affermare un’egemonia, spesso basata sull’esercizio muscolare, di fatto ne mortificano la funzione e la natura, fino a contraddire la sua stessa denominazione! Non è un partito politico, ma un edificio dalle porte girevoli del quale servirsi a seconda delle convenienze. Per me basta così!». Andria, settant’anni compiuti il 27 maggio, il giorno dopo la scomparsa dell’amico Ciriaco De Mita, è un galantuomo di altri tempi, una figura eminente del Partito democratico meridionale e nazionale.
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La Capria e l’infinito lavoro di conoscere sé stesso
di Silvio Perrellla
Foto di Lorenzo Capellini
Lo scrittore è morto a 99 anni. Ha fatto parte delle più fertile generazione del secondo Novecento di quegli indagatori del reale che hanno creduto nella letteratura come una forma di conoscenza insostituibile
Raffaele La Capria ogni volta che poteva faceva uso d’ironia; il suo essere sempre un po’ sfottente non si fermava nemmeno davanti alla sua stessa morte. Si figurava quel momento cadere nella falsa curiosità di chi a cena dice: è morto La Capria. Chi? Quello della bella giornata? Non so. Lo hanno detto stamattina al telegiornale. E hanno aggiunto che aveva Napoli nel cuore. Passami l’insalata. Per dopo ho comprato un buon dolce.
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La tratta delle donne invisibili del ghetto di Borgo Mezzanone
di Martina Martelloni
In provincia di Foggia c’è una baraccopoli dove vivono migliaia di migranti. Tra di loro diverse ragazze destinate a diventare vittime di criminali che le fanno prostituire per pochi euro
«Questo non è un posto per una donna», dice Patricia alzando la voce e volgendo lo sguardo al cielo: «Qui dentro inizi a scomparire dal primo giorno in cui ci metti piede». Patricia vive a Borgo Mezzanone, nel ghetto in provincia di Foggia dove vivono migliaia di migranti. I braccianti, il caporalato, il sistema della grande distribuzione agricola che decide il prezzo del prodotto tornano episodicamente al centro del dibattito pubblico. Ma le donne, che sono la minoranza del campo, sono come cancellate dal racconto e dall’attenzione delle istituzioni. Sono figure invisibili e ignorate.
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Contrabbando e altre denunce di Leogrande
di Angelo Ferracuti
Quando nel 2003 Alessandro Leogrande (Taranto, 20 maggio 1977- Roma, 26 novembre 2017) pubblica per L’Ancora del Mediterraneo il suo secondo libro, Le male vite, ora riproposto da Feltrinelli con una prefazione di Gianfranco Bettin, è giovanissimo, ha 26 anni, ma ha già un talento virtuosamente ossessivo nella scrittura giornalistica investigativa, ed è già un piccolo maestro del reportage narrativo, che contribuisce a far rinascere nel nostro Paese.
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Le quattro giornate di Napoli non invecchiano
Antifascismo. Nonostante i tentativi di mistificare la storia o semplificarla, le testimonianze ribadiscono che il capoluogo campano fu tra le prime città in Europa a liberarsi da sola dagli occupanti
«Nessuna vittoriosa rivolta popolare, è stata spoliticizzata, decontestualizzata, sminuita e persino negata, come le Quattro Giornate di Napoli.» Sono le prime righe di un bel libro ampiamente documentato di Giuseppe Aragno sulla rivolta della città contro tedeschi e fascisti nel Settembre 1943: Le quattro giornate di Napoli, ed. Intra Moenia, 2017.
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Il Sud che non vuole morire
di Sergio Rizzo
Sfilavano in parata ministri, sottosegretari, governatori, onorevoli, sindaci e presidenti della rispettabile azienda pubblica strade. Con le facce serie e l’aria solenne, sfilavano. Ognuno a promettere che avrebbero fatto in fretta, più in fretta possibile. Ognuno a rassicurare che ricostruire i 270 metri del viadotto Himera era un’assoluta priorità perché non si poteva lasciare la Sicilia, già ampiamente mortificata da strade del Terzo mondo, con la Palermo-Catania mozzata dal cedimento di un pilone. Era la notte fra l’8 e il 9 aprile 2015 quando quel pilone fece crac. Un mese dopo il premier Matteo Renzi annunciava: “Abbiamo approvato la delibera che stanzia le risorse per l’emergenza del viadotto siciliano”. Mentre l’Anas comunicava che era tutto pronto per le demolizioni e che una volta terminate quelle, sarebbero bastati 15 mesi per la ricostruzione. Al massimo 18. Dopo 34 mesi, invece, non avevano ancora nemmeno aggiudicato i lavori. E di mesi, da quel maledetto aprile 2015, ne sono già trascorsi fra una sfilata e l’altra ben 56 e siamo ancora a carissimo amico.
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8 settembre 1943, così diventai un partigiano
di Giorgio Bocca
Che cosa si ricorda delle giornate decisive come l'otto settembre del '43? Subito il tempo: il cielo azzurro di un tiepido d'autunno, poi le cose minime della quotidianità, il risveglio, la colazione, come eri vestito? In divisa da sottotenente del 2 ° alpini? Sì certo, avevi giurato fedeltà al re imperatore solo due giorni prima, nella caserma di Cuneo. Chi c'era in casa? Tua madre, tua sorella, tua nonna Maria, la cameriera Bice che arriva il mattino presto con il pannello ancora caldo di forno.Del messaggio di Badoglio che la radio continua a ricevere c'è un ricordo breve e confuso, ma quanto bastava per capire che la guerra era finita una buona volta, ci eravamo arresi agli angloamericani.Ma che voleva dire «i nostri reparti reagiranno a qualsiasi attacco di altra provenienza». Perché non dire i tedeschi? Chi altri?
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L’armata degli alberi di Roosevelt che serve al Sud
di Battista Sangineto
L’Italia possiede il bene ineguagliabile dell’enorme patrimonio culturale stratificatosi per più di trenta secoli e in maniera capillare nell’ordito armonico delle antiche città, dei musei, delle chiese, dei siti archeologici, dei centri storici immersi nel paesaggio.
La devastazione della gran parte del paesaggio e delle città soprattutto del Mezzogiorno è, purtroppo, la dimostrazione che il riconoscimento e la produzione della bellezza sono attività che classi dirigenti e cittadini, soprattutto quelli meridionali, non hanno esercitato, compreso ed interiorizzato da troppo tempo. Non hanno voluto comprendere, che con la scomparsa del paesaggio e delle antiche città si scardinava un fondamentale nesso psicologico di formazione identitaria perché la stabilità dei luoghi garantisce alle società un senso di perpetuità, in grado di conservare l’identità individuale e collettiva.
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Ancora in aumento il gap tra il Mezzogiorno e l’Italia. L’Osservatorio Banche Imprese ha pubblicato il Rapporto sulle previsioni 2017-2020 del valore aggiunto e dell’occupazione per tutte le province italiane e per i comuni del Mezzogiorno, basate su una versione aggiornata del modello Todomundi (Top Down municipal domestic indicators). Il rapporto elaborato dall’Obi verrà presentato prossimamente con un evento previsto a Roma nella seconda settimana di novembre.
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L'estate eterna dei nostri schiavi
di Tiziana Colluto e Lucio Mussolino
Quest’estate, per adesso, sono mancati i morti di caldo: i martiri dell’uva, del pomodoro e dei cocomeri. Per il resto nei campi del Sud lo scenario è lo stesso della passata stagione, di quella prima e di quella prima ancora: il caporalato resta una forma di schiavitù tollerata. Tra Calabria e Basilicata, tar le vigne e i campi, tra le tendopoli, i porcili e le stalle si ripete ogni giorno, in silenzio, la stessa grande vergogna italiana.
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Come si crea il nemico
di Giuido Viale
Ma anche il razzismo si manifesta, in forme diverse, sia in chi lo pratica che nelle vittime. Il pensiero postcoloniale ha fatto capire quanto è lunga la strada delle vittime per liberarsi dagli stereotipi dei dominatori. Questo è il “grado zero” del razzismo; che ha poi molti altri modi di manifestarsi.
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Un esempio da ricordare e tramandare
di Giuseppe Dambrosio
Il 10 maggio 1799; alle ore 19.00, il Cardinale Fabrizio Ruffo entra in Altamura dopo un assedio di durato due giorni. Nella notizia ministeriale che il Cardinale invia dal quartiere generale di Altamura il 16 maggio 1799 si legge "Altamura quella forte e ben munita città, che credendosi insuperabile aveva disprezzati gl'inviti di dover ritornare all'ubbidienza del Re; malgrado la sua ostinata resistenza, fu nel giorno di venerdì prossimo scorso dieci andante maggio, mercè il valore delle invincibili nostre truppe, presa per assalto, e saccheggiata".
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Napoli, lo sfratto della cultura
di Carlo Vulpio
Eravamo venuti a trovare Gerardo Marotta, un giovanotto di 89 anni travestito da vecchietto inerme, intabarrato in un nero cappotto e sovrastato da un nero cappello a falde larghe, che in realtà sono la sua uniforme da combattimento, per parlare con lui dell’ennesimo delitto italiano nei confronti dei libri, e ci siamo ritrovati ad ascoltare una storia che racconta non soltanto di libri depositati in sotterranei e magazzini industriali come materiale di scarto — questo è il delitto visibile —, ma narra di un «genocidio culturale», e questo è il delitto invisibile, i cui effetti i popoli sconteranno negli anni a venire. «Esattamente ciò che è accaduto — dice Marotta a “la Lettura” —, a Napoli e al Sud, e quindi all’Italia, dalla bestiale repressione seguita alla Rivoluzione napoletana del 1799 fino ai giorni nostri».
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Omicidi, estorsioni e bombe In Puglia la mafia “più cattiva”
di Andrea Malaguti
I dati della polizia confermano: Foggia è tra le emergenze principali. Spaccio di droga e racket costituiscono le maggiori fonti di guadagno
Da settembre a oggi, con picchi in novembre e dicembre, ci sono stati quattro omicidi e otto tentati omicidi. E dieci bombe sono esplose davanti ai negozi. Punizioni per chi non paga il pizzo. O anche avvertimenti per esercizi commerciali vicini: se non ti pieghi salti per aria anche tu. «Quello che succede qui è inimmaginabile, eppure nessuno ne parla, come se nei duecento chilometri di strade tra Foggia e il Gargano esistessero solo Padre Pio, gli ulivi, la mozzarella buona e il mare azzurro», dice il questore Piernicola Silvis.
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L’austera libreria della famiglia Bizzocchi, incastrata nel Palazzo Vescovile alle spalle del Duomo e del Municipio di Reggio Emilia, vende bibbie, madonne e bandiere dal 1907. Il tricolore ufficiale in poliestere, buono da appendere alla finestra quando gioca la Nazionale, costa appena cinque euro. La bandiera cispadana, cento centimetri per cento, in moella di seta con stemma ricamato a macchina e frangia dorata ai bordi, vale trenta volte tanto per la lavorazione artigianale che richiede. «A comprarla sono soprattutto le istituzioni: la Camera di Commercio, il Comune, le Associazione Industriali», spiega Giancarlo Bizzocchi, orgoglioso dei suoi manufatti perfino negli impercettibili difetti. «Le bandiere risorgimentali erano tessute di notte nei campi dalle donne: non potevano essere perfette, amava ripetermi Ugo Bellocchi», il giornalista che per primo parlò delle origini reggiane della bandiera italiana. Le dedicò un volumetto dal sapore di favola, non a caso pubblicato come strenna natalizia, nel 1963, dalla Lombardini Motori. Otello Montanari ha 89 anni ed entra zoppicando nella Sala del Tricolore. Non per l'età: nel capodanno del 1945 i fascisti gli spararono a una gamba perché militava nelle fila dei Gap. Il partigiano è un simbolo di Reggio. Nel 1960, da deputato, partecipò agli scontri di piazza contro il governo Tambroni. Negli anni Ottanta ha fondato il Comitato Primo Tricolore, finendo per scontrarsi aspramente con il premier meneghino Craxi, che spingeva per una primogenitura milanese dei colori nazionali. Il bianco, il rosso e il verde furono invece stabiliti in Emilia, dentro una sala pensata per ospitare l’archivio generale del Ducato estense di Modena e che, prima di diventare la sede del consiglio comunale, fu aula scolastica, deposito della legna, alloggio per i carri spazzaneve. «La Repubblica Reggiana nacque il 26 agosto 1796», racconta Montanari mentre conta le poche novità dell'ambiente rispetto alla fine del XVIII secolo: microfoni e impianto elettrico, i parapetti e le sedie, inchiodate al pavimento per evitare che fossero lanciate durante i furiosi consigli comunali. Al tempo della Prima Repubblica, la politica sapeva scatenare discussioni forti nella terra di Don Camillo e Peppone. «Due giorni dopo fu costituita la Guardia Civica, che doveva essere composta da tutti i cittadini, anche se ebrei e membri delle classi popolari, purché “atti a portare i fucili”». Aveva il compito di difendere l’ordine pubblico e fu costruita sulla base delle parrocchie: erano i preti i depositari della cultura e gli studenti legati al seminario erano spesso anche giacobini. «Il popolo aveva preso a protestare con maggior vigore per l’avvicinarsi dei francesi, vedendo in loro i portatori di uguaglianza e libertà. Il 20 agosto si era scatenata una rivolta in Piazza San Prospero, capeggiata dall’ortolana Rosa Manganelli. Chi l’aiutò fu Carlo Ferrarini, il futuro capitano della Guardia Civica che capeggiò i reggiani il 4 ottobre nella battaglia di Montechiarugolo, dove cittadini in armi sconfissero gli austriaci fuoriusciti da Mantova attirandosi le lodi di Ugo Foscolo». La Repubblica Reggiana durò altre due settimane, finché Napoleone non creò la Cispadana, riunendo 110 deputati in rappresentanza di Modena, Bologna, Parma e Reggio. «Fu questo congresso, in questa sala, il 7 gennaio 1797 a decidere l’aspetto della prima bandiera tricolore, approvando una mozione di Giuseppe Compagnoni. Tre strisce orizzontali: il rosso in alto, il bianco in mezzo, in basso il verde. Al centro una faretra con quattro frecce, a simboleggiare l'unione dei quattro popoli; ai lati le iniziali RC». Montanari, nel 1955, accompagnò Alcide Cervi in Unione Sovietica. Quando il grande vecchio morì, quasi centenario, la salma venne esposta nella Sala del Tricolore e al funerale, dove l’orazione fu tenuta da Ferruccio Parri e Giorgio Amendola, partecipano oltre 200 mila persone. La storia della famiglia è raccontata dal Museo Cervi, ospitato a Gattatico tra le mura della casa colonica abitata dai sette fratelli fucilati dai fascisti nel dicembre del 1943. Qui i visitatori sono accolti all’insegna dell’internazionalismo. Un globo è poggiato su un trattore, che i Cervi comprarono nel 1939. Fu uno dei primi nella bassa reggiana; la sua missione era alleggerire la vita dei contadini. Perciò Aldo chiese al venditore, in omaggio al valore dell'investimento, un regalo da scegliere tra i suoi oggetti personali. Parlarono e il commerciante, capito chi aveva di fronte, gli lasciò prendere un mappamondo. Perché il progresso doveva essere universale. Quattro anni dopo Aldo e i suoi fratelli furono uccisi dalla Repubblica Sociale di Salò, un fantoccio svenduto ai nazisti vanaglorioso già nell’effige: un tricolore con al centro, su campo bianco, l’aquila che artiglia un fascio littorio. Per contrasto, aggiungendo la variante di una stella rossa, il distaccamento partigiano Fratelli Cervi tornò al tricolore orizzontale della Cispadana. Un grido di indipendenza da chi stava infamando la patria, con voce giacobina; il marchio di una lotta popolare per la liberazione nazionale. Reggio si apre a chi vuole ascoltarla, rivelandosi un fiero sussidiario della storia italiana. Fu fondata tra le paludi dal console Marco Emilio Lepido, all’inizio del II secolo a.C., per agevolare il passo marziale dei legionari. Il Rubicone e l’Italia restavano allora a sud. Presso il comune, una statua e una targa visualizzano l’ossimoro che accompagnò la seconda unificazione della penisola, dopo l’unico precedente di epoca romana. Enrico Cialdini modenese e Giuseppe Lamberti reggiano: il flagello del Mezzogiorno e il mazziniano protoeuropeista. Nel recente «L’eredità della Resistenza» di Philip Cooke, professore di storia italiana all’Università di Glasgow, leggiamo come la città emiliana sia stata fondamentale anche per il recupero di un’onesta storiografia sulla Resistenza, che ancora fatica per diventare una narrazione condivisa. Il 7 luglio 1960 i reggiani manifestarono pacificamente contro il governo Tambroni, formato grazie all’appoggio esterno del Msi. Immotivata la reazione delle forze dell’ordine, che uccisero cinque operai comunisti sotto i portici di San Rocco. Fu quel sacrificio a rendere urgente la discussione che avrebbe sdoganato la Resistenza, al di là dei revisionismi di comodo e della retorica del 25 aprile. La bandiera è un oggetto parlante. A svelarla è il Museo del Tricolore, inaugurato nel palazzo comunale dal presidente Ciampi. Reperti e documenti ripercorrono le sue vicende fino al 1897, quando Reggio organizzò le celebrazioni del primo centenario, chiuse da un pomposo discorso di Giosuè Carducci, attento a lamentarsi della nostra - evidentemente cronica - smemoratezza. Con la Restaurazione i colori nazionali finirono al bando. I carbonari preferirono il nero, il rosso e il turchino; fu Mazzini a imporre la ripresa del tricolore classico, che tornò sulle barricate nel Quarantotto. Carlo Alberto vi sovrappose allora lo scudo savoia. Perfino a Roma comparvero fazzoletti con fasce tricolori, inframmezzate da inquietanti icone di Pio IX. Il 25 marzo 1860 un decreto fissò le caratteristiche della bandiera dell’imminente Regno d’Italia, simile a quella albertina. Con questi connotati, pressoché immutata, sarebbe rimasta in vigore fino al referendum del 1946. Il 7 gennaio dell’anno successivo, alla presenza di Enrico de Nicola, Luigi Salvatorelli sottolineò a Reggio come il tricolore fosse stato riconsacrato da chi aveva combattuto contro il nazifascismo. Mario Luzi tenne il discorso per il bicentenario, nel 1997. «Il vessillo della nazione sovrastò le cariche delle truppe impiegate a reprimere scioperi, rivendicazioni, proteste», disse invitando a riflettere sulle derive autoritarie mascherate dal patriottismo. «Ma salvaguardò quel rivolo di continuità e di legittimità che sostenne e talora esaltò la Resistenza». Così non sorprende che siano stati due partigiani, Montanari e Bellocchi, a volere l’Associazione Nazionale Comitato Primo Tricolore, promotrice trent’anni fa della ricostituzione della Guardia Civica. La riportarono in vita sessanta volontari, indossando uniformi tessute dopo aver consultato l’archivio dell’esercito francese, collocato nel castello parigino di Varennes. A dirigere questi volontari, tra cui tanti ragazzi, è oggi Claudio Prati, che ha organizzato diverse rievocazioni storiche a Montechiarugolo e Reggio. «Il tricolore è la bandiera universale della libertà e dell'indipendenza», dice. «Gli stessi colori della nostra li ritroviamo nelle bandiere di altre nazioni fondate sui principi rivoluzionari del ’700 e dell’800». E la Guardia Civica? Sono concordi, tutti: «Era frutto di un concetto nuovo. Noi cittadini abbiamo una Res Publica da difendere, non possiamo affidarla a mercenari». Il loro è un gioco intelligente portato avanti con passione, che all'improvviso diventa serio. «Quando indossiamo i costumi e tiriamo fuori flauti e tamburi ci divertiamo - conclude Claudio - ma mai dimentichiamo che riflettere sulla nostra identità nazionale è la strada maestra per capire il senso dell'Europa».
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Il Rapporto Svimez e le lettere a un meridione mai nato
di Giso Amendola, Girolamo De Michele, Francesco Ferri, Francesco Festa
Ogni volta che si ha a che fare con faccende che riguardano il Sud, si tira in ballo un linguaggio medicale, più precisamente, epidemiologico. All’indomani delle anticipazioni dell’ultimo Rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno, i rumori, gli allarmi dapprima, e poi gli scritti, i proclami pubblici, le fallaci(ane) lettere a un meridione mai nato, infine il decisionismo del governo Renzi, ha seguito un suo crescendo ritmato dal gergo medicale.
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Lontani dal Sud
Quattro scrittori, emigrati dal sud Italia, raccontano che effetto fa sentire che il Mezzogiorno «è più povero della Grecia».
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La Questione Meridionale non è mai finita
di Alessandro Leogrande
La questione meridionale è stata sempre l’altra faccia della storia unitaria e, negli ultimi decenni, della storia repubblicana. Ma da almeno un ventennio si assiste alla progressiva scomparsa della parola “sud” dalle agende dei governi che si sono succeduti alla guida del paese. Anche per il premier Matteo Renzi tale parola evoca un certo fastidio: una sorta di cubo di Rubik irrisolvibile che è meglio riporre nel cassetto.
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COSA FARE DEL SUD
di Oscar Iarussi
Che palle, il Sud. Come dite? No, non ci sono le virgolette: non è una citazione di qualcuno, lo dicono tutti. È un pensiero talmente interiorizzato, incistato nel corpaccione flaccido sebbene elettrico dell’opinione in pubblico, da risultare veritiero agli occhi dei più (nessuna traccia di opinione pubblica). Una fisiologia dell’insofferenza e dell’indifferenza avvolge e travolge la questione meridionale che per poco meno di un secolo e mezzo dopo l’Unità d’Italia, dal 1861 agli anni ’90 del Novecento, fu la questione nazionale per eccellenza, una diagnosi condivisa nonostante prognosi e terapie fossero spesso divergenti.
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PAROLE
VUELVO AL SUR
il sud fallisce,
il sud rinasce,
ti esalta e ti avvilisce
di Franco Arminio
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Tra i mali del Su Gramsci trascurò la Mafia
di Luigi Grassia
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Svendi-Italia
di Tommaso Montanari
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Altamura la Leonessa di Puglia
di Giuseppe Dambrosio
Esattamente il 1 febbraio del 1799 iniziava ad Altamura l’esaltante esperienza rivoluzionaria di segno repubblicano che interessò, con la stessa intensità, pochi altri centri del Regno di Napoli. Altamura, nei 100 giorni di autogoverno, non ebbe esitazione a far propri gli ideali della Rivoluzione Francese (libertà, fraternità ed uguaglianza) e a sperimentare nuove forme di partecipazione e organizzazione politica. Lo schieramento composito dei protagonisti (nobili, clero, intellettuali, borghesi, lavoratori, portatori di interessi diversi e contrapposti) trovò un momento di unità nel difendere la cosa più cara che li accomunava: l’indipendenza economica e politica della “propria” città.
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Scotellaro, versi della libertà contadina
di Franco Arminio
Leggendo i versi di Rocco Scotellaro penso alla mia infanzia, cominciata quando il mondo contadino stava finendo. Ma forse ho fatto in tempo a sentire qualcosa che si sforzava di resistere, di non cambiare. E allora adesso mi viene in mente quel tempo e questo, le loro differenze. Penso alla vampa del focolare, penso alle nevicate notturne, alle mattine in cui la neve rimpiccioliva le finestre. Il paese di adesso è raggiunto dalle immagini che calano dalle antenne. E nel computer vedi quello che puoi vedere ovunque. La vampa della tua esistenza non sembra più salire da un luogo ma solo dal tuo corpo.
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Intervista con l'economista Amoroso: Impoveriscono i ceti medi e proletari e lo chiamano “risanamento”.
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Al Sud l'economia è ancora Cosa loro
di Luca Tescaroli
Nell’ultimo ventennio, lo sviluppo economico in Sicilia, compresso e condizionato dalla presenza mafiosa, non vi è stato. Gli investimenti effettuati non hanno prodotto ricchezza per la collettività e decremento della disoccupazione.
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«In Italia 30 mila piccoli schiavi»
Lavoro minorile: l’allarme nel rapporto di Save The Children
di Marida Lombardo Pijola
Trentamila piccoli schiavi. Tutti in pericolo. Tutti senza infanzia. Tutti sotto scacco da parte di un “padrone”. Sono una parte dei 260 mila bimbi o adolescenti italiani che lavorano. Ovvero 1 su 20: il 5,2 per cento di tutti quelli sotto i 16 anni. Lo denuncia il rapporto di Save The Children e dell’Associazione Bruno Trentin, nell’aggiornare i dati sul lavoro minorile, che erano fermi a 11 fa.
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