La Questione Meridionale non è mai finita
di Alessandro Leogrande
La questione meridionale è stata sempre l’altra faccia della storia unitaria e, negli ultimi decenni, della storia repubblicana. Ma da almeno un ventennio si assiste alla progressiva scomparsa della parola “sud” dalle agende dei governi che si sono succeduti alla guida del paese. Anche per il premier Matteo Renzi tale parola evoca un certo fastidio: una sorta di cubo di Rubik irrisolvibile che è meglio riporre nel cassetto.
L’ultimo rapporto dello Svimez sullo stato dell’economia meridionale restituisce una fotografia impietosa. Non è la prima volta che vengono forniti dati del genere: è da almeno quattro anni che i rapporti annuali di Svimez, Censis, Istat sottolineano la deriva delle regioni meridionali. Ma ora comincia ad apparire evidente come alle spalle del dissesto economico (crollo del pil, desertificazione industriale, implosione del sistema manifatturiero, povertà dilaganti…) si stia delineando un vero e proprio tsunami demografico e sociale.
Sono due milioni i neet meridionali (persone non impegnate nello studio né nel lavoro né nella formazione). Due milioni i giovani tra i 15 e i 34 anni delle regioni del sud che non lavorano e non studiano. Sono oltre il 38 per cento della loro fascia d’età. Molti di più, in proporzione, che nel resto d’Italia (20 per cento) e che in Grecia (29 per cento), percepita in questi anni come l’epicentro della crisi europea.
Se da una parte un’ampia porzione dei giovani meridionali appare stretta tra disoccupazione, assenza di prospettive, alienazione crescente, dall’altra si assiste al ritorno dell’emigrazione in forme massicce, sia sotto forma di nuova emigrazione operaia, sia sotto forma della “fuga di cervelli”.
Il fenomeno potrà essere meno appariscente se visto dai centri delle grandi città della costa tirrenica e adriatica, ma basta fare un giro nelle zone interne per accorgersi come la scomparsa dei giovani stia diventando un fattore endemico.
A questo dato impietoso sulla condizione giovanile si aggiunge quello sul crollo della natalità. Il dato del 2015 (174mila nuovi nati) è il più basso della storia unitaria. Più basso dei dati registrati ai tempi del brigantaggio, o durante le due guerre mondiali. Di questo passo nel giro di qualche lustro una metà del paese apparirà sempre più invecchiata, spopolata e marginalizzata.
E allora a finire sotto la lente non è solo lo stato dell’economia meridionale. È lo stato dell’Italia unita a essere andato in frantumi.
Come è stato possibile tutto questo?
Da tempo si è esaurita la spinta del meridionalismo storico
La questione meridionale è stata sempre l’altra faccia della storia unitaria e, negli ultimi decenni, della storia repubblicana. Ma da almeno un ventennio si assiste alla progressiva scomparsa della parola “sud” dalle agende dei governi che si sono succeduti alla guida del paese. Anche per il premier Matteo Renzi tale parola evoca un certo fastidio: una sorta di cubo di Rubik irrisolvibile che è meglio riporre nel cassetto.
Il cosiddetto ritardo
Tuttavia, se da una parte desertificazione industriale e desertificazione politica vanno di pari passo, dall’altra bisogna ormai riconoscere che da tempo si è esaurita la spinta del meridionalismo storico, quella specifica corrente di pensiero (italiana, non solo meridionale) che ha fatto dell’analisi critica e del racconto del Mezzogiorno lo specchio dell’analisi critica e del racconto dell’intero paese.
Il meridionalismo migliore, quello di Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, Antonio Gramsci, Guido Dorso, don Sturzo, Manlio Rossi-Doria, Tommaso Fiore eccetera, ha sempre interpretato il sud come una realtà non monolitica.
Ha saputo analizzare (sotto la lente di una sorta di illuminismo radicale) i ceti sociali e le ragioni profonde del cosiddetto ritardo. Ma, nel farlo, ha saputo anche individuare le responsabilità delle classi dirigenti locali, della “borghesia lazzarona”, dei tanti “luigini” (per usare un’espressione cara a Carlo Levi) annidati tra le pieghe dello status quo. Non perché le colpe siano solo “nel” sud, ma per il semplice fatto che ogni critica dell’esistente deve sempre partire da sé, dalla necessaria anticamera dell’autocritica.
Si assiste al ritorno del sudismo, del piagnisteo neoborbonico
Il meridionalismo migliore ha sempre pensato che non bisognasse chiedere “per” il sud, attivando la solita economia di scambio gestita dai sottopoteri, ma trasformare il sud, producendo una sorta di rivoluzione culturale. Si parlava un tempo di “riforme di struttura”, tese a cambiare il Mezzogiorno (e di conseguenza l’intera Italia) dalle sue fondamenta, attivando un processo di profonda trasformazione.
Cosa rimane oggi di questo meridionalismo? Molto poco. È come se tra i rapporti allarmati sfornati anno dopo anno da Censis, Istat e Svimez sulla “deriva” meridionale e i governi che dovrebbero rimuovere le sue cause non ci sia più quella terra di mezzo in cui era elaborata una critica culturale e politica. Non che non ci siano una nuova letteratura e nuova saggistica meridionale (l’elenco degli autori di questi anni potrebbe essere lunghissimo). Ciò che è venuto meno è uno spazio intermedio di confronto critico con la sfera politica.
I nuovi “professionisti del Mezzogiorno”
Così, il vuoto che si è creato è stato riempito in altri modi. Da una parte si assiste al ritorno del sudismo, cioè del piagnisteo neoborbonico di chi vagheggia il ritorno a un buon tempo andato che non è mai esistito, e vede i mali solo e sempre altrove (nel nord, a Roma, a Bruxelles o a Francoforte), emendando di fatto le responsabilità delle élite meridionali. Dall’altra ci sono i nuovi “professionisti del Mezzogiorno”, i mediatori tra centro e periferie che provano a rinnovare – nel nuovo secolo – ciò che resta dello scambio novecentesco tra fondi pubblici e consenso.
Oggi che la parola “deriva” sembra aver sostituito la più classica “ritardo”, occorre forse tornare a riflettere su come ripopolare quel vuoto di analisi e confronto critico.
L'Internazionale 3 agosto 2015