Lontani dal Sud
Quattro scrittori, emigrati dal sud Italia, raccontano che effetto fa sentire che il Mezzogiorno «è più povero della Grecia».
I dati mi sembrano in linea con quelli tragici degli ultimi anni. Pensavo avrebbero provocato la solita scrollata di spalle. Invece la vera differenza è stata nella reazione del pubblico, credo perché il richiamo alla Grecia sia stato molto efficace. «Meno della Grecia» come immagine ha funzionato molto. L’ennesima dimostrazione che se riesci a raccontare una cosa con un’immagine forte poi diventa interessante per molti che altrimenti non c’avrebbero visto niente. (Arnaldo Greco)
Sono così sconcertanti le anticipazioni del rapporto Svimez 2015? Per chiunque non viva su Kepler-452b no, eppure bisogna far finta di sorprendersi, indignarsi, scandalizzarsi. Non è neanche necessario essere nati o cresciuti al Sud: la mia generazione sapeva benissimo che qualsiasi cosa persa con la crisi (una tutela, una quota dello stipendio) mai l’avrebbe recuperata (qualcuno fingeva di credere ai “provvisoriamente”, certi per disperazione, certi per raccontarsela), e sapeva anche che l’Italia non è tutta uguale, che il disastro economico non avrebbe avuto ovunque lo stesso impatto né le stesse possibilità di ripresa. Per non pensarci, possiamo andare in vacanza in Grecia, in confronto è un posto ricco. Ma non si smette a comando di sbattere la testa, quindi non resta che sognare; diceva Danilo Dolci che “ciascuno cresce solo se sognato”, magari succede anche con l’economia. (Nadia Terranova)
I dati dello Svimez non mi meravigliano. Il Sud è politicamente abbandonato a sé stesso dai tempi della Prima Repubblica. Renzi se ne disinteressa, ma nemmeno De Mita, avellinese, se ne interessò mai. Il problema è tuttavia filosofico: dopo la Guerra fredda, la tensione Usa-Urss per lo scontro atomico, una tensione quindi tra est e ovest, ha dato vita al primo Super Stato planetario; ciò nonostante nascondeva un interesse in comune per i due rivali: porsi alla guida dei Paesi poveri, dei Sud del mondo. Lo spostamento di tensione da Usa-Urss a Nord a Sud del pianeta è un problema universale, cardine tra l’altro del pensiero filosofico degli ultimi decenni, che in Italia si riflette in maniera drastica per tutta una serie di ragioni storico-culturali. Una riflessione superficiale su queste tematiche lascia facilmente credere che l’equilibrio tra due diverse culture sia da stimolo per l’invasione di una delle due (invasione, parola tanto cara a Salvini). Alcide Pierantozzi)
È la prima volta che i dati disastrosi di uno dei tanti rapporti sullo stato del Sud mi colgono lontano da Napoli più di duecento chilometri. A Roma, complice forse la meridionalizzazione progressiva della Capitale, li vedevo ancora come qualcosa che mi riguardava. A Milano li vedo come un’onda lontana per quanto preoccupante. Anche forse con quel sentimento di salvezza egoistica di chi abbandona la casa un attimo prima che crolli. Cerco di fare i conti con quel sentimento di rivalsa tipico del meridionale emigrato che disconosce le proprie origini. Credo che abbia delle ragioni concrete che poggiano le basi non tanto nella proverbiale indifferenza del resto d’Italia verso il Meridione, quanto nell’indifferenza alla catastrofe che si respira proprio al Sud. Sono sicuro di poter dire che questi dati vengono vissuti tragicamente in altre parti d’Italia più che nello stesso Sud. A Napoli – per esempio i miei parenti o i pochissimi amici rimasti – vivono trasformando la tragedia in una forma di serenità. In tutti questi anni – gli anni in cui sono cresciuto al Sud – nessuno, e in primis la classe politica, sembra aver fatto caso alla totale assenza di produttività o alla incrostazione delle rendite di posizione. O meglio ci hanno fatto tutti caso, ma vista la difficoltà di risolvere il problema hanno risolto il problema vagheggiando quest’idea di unicità non produttiva. È per questo che la reazione, complessa e contraddittoria perché dentro c’è anche una forma di rimpianto, include il senso di rivalsa, il “vi meritate questo e anche peggio”. Mi rendo anche conto che non si possono individuare dei responsabili precisi, che non si può gettare la croce al cittadino per il semplice fatto che è del Sud, ma c’è una rabbia rispetto a questo gigantesco fallimento che mi spinge verso la visione estrema del “nessuno è innocente”. (Cristiano de Majo)
In breve diventerò uno del Sud che ha vissuto più tempo lontano dal Sud che lí. Se tornassi (a Napoli, non m’immagino altrove) non potrei fare lo stesso lavoro che faccio e se tornassi un qualsiasi giorno dell’anno troverei meno della metà dei miei amici visto che la diaspora dovuta a una scelta di studi che sapevamo “fallimentare” ci ha spersi un po’ ovunque (tranne chi ha trovato lavoro per lo Stato). Mi piacerebbe molto dire che No, non ci tornerei perché ormai detesto profondamente il vittimismo dei campani, detesto il voler giustificare sempre ogni cosa appigliandosi alla loro unicità, detesto il bidet della regina che viene fuori in ogni discorso, detesto l’invidia di chi ha potuto studiare e le connivenze col malaffare dei genitori degli invidiosi. Ma invece sì, ci tornerei. E non perché abbia fiducia che questi dati possano essere una scossa o perché non ammiri chi, fregandosene, ci prova quotidianamente. Ma per una ragione tutta egoistica. Che mi manca poter dire le parole con la “sc”, mi manca quella vitalità, mi mancano pure i neomelodici (questa è una prova inconfutabile). Ci porterei anche i miei figli sapendo che anche loro come me a 16 anni comincerebbero a sognare con tutta l’anima di scappare via (probabilmente ricomincerei in breve anch’io, chi può dirlo). Mi sembrerebbe naturale, si nasce, si cresce, si sogna di scappare, non vedi l’ora di tornare (Arnaldo Greco)
Vorrei che la mia Sicilia fosse il laboratorio dove si lavora a un esperimento concreto: dimostrare la tesi opposta a quella secondo cui con la cultura non si mangia. La Sicilia è il posto giusto per avviare il test: tutto è perduto e non si può più perdere niente, e poi disponiamo di abbondante materia prima. Partiamo da biblioteche immense, pubbliche e private, lasciate morire da un ceto borghese che negli ultimi due secoli è riuscito a essere più scarso e immobile di quello nobiliare. Stiamo zitti, per una volta; facciamo parlare quello che c’è e ha resistito nonostante noi: i musei splendidi, l’arte cinquecentesca, i quartieri ebraici, il barocco, i giardini secolari. Pensiamo ai luoghi che agonizzano mentre dovrebbero essere patrimonio dell’umanità: due su tutti, con le loro petizioni disperate degli ultimi anni, il Museo Mandralisca a Cefalù (custodisce il Sorriso dell’ignoto marinaio di Antonello da Messina), la Biblioteca Ursino Recupero a Catania. Ne esistono infiniti altri e tutti avrebbero bisogno di manodopera, laureati, impiegati, invece sono tenuti in piedi spesso da una persona sola e da volontari. Diceva Sciascia che per vivere in Sicilia ci vuole molta immaginazione: forza, usiamola, non c’è niente di più potente del suo utilizzo disperato. (Nadia Terranova)
L’influenza borbonica in Italia ha agito profondamente, ad esempio, sulla cultura abruzzese (da dove vengo). Si pensi a un capolavoro come Fontamaradi Silone, e a come delinea le differenza sociali, a come spiega bene il terrore da parte dei signori di perdere qualche privilegio. Ancora oggi dalle mie parti si ragiona così. Mi spiace dover ammettere che solo a Milano, oggi, non si ragiona così. Al di là dei dati Svimez, il Sud italiano (se lo si analizza secondo criteri comportamentali o di costume) comincia ben al di sopra dell’Abruzzo. (Alcide Pierantozzi)
Sono tornato già una volta colto da quella tipica nostalgia che ho cercato di mascherare in impegno civile: “torno perché ho voglia di fare qualcosa per la mia città”; se ci penso, mi sembra ridicolo. Dunque non credo che tornerò più. La cosa che mi fa più male è sentire i miei figli iniziare a parlare con l’accento cantilenante del Nord. Anche questo fastidio mi sembra ridicolo e non lo riesco a spiegare razionalmente, ma è di sicuro il segno di una legame fortissimo, se non con un terra, con una lingua. Non possiamo fare finta di essere in America, cioè di essere un Paese dove spostarsi da una città all’altra è la normalità. Certo, è diventata e diventerà sempre più la normalità, ma una normalità vissuta come anormalità. L’idea di tornare mi sembra inevitabilmente legata all’idea di “fare qualcosa per”. Non vedo il tornare come una scelta che non sia legata all’idea di martirio. Non mi sembra realistico immaginare che un giorno potrò fare a Napoli il lavoro che sto facendo a Milano e questo, almeno per il momento, chiude la questione. (Cristiano de Majo)