Il Rapporto Svimez e le lettere a un meridione mai nato
di Giso Amendola, Girolamo De Michele, Francesco Ferri, Francesco Festa
Ogni volta che si ha a che fare con faccende che riguardano il Sud, si tira in ballo un linguaggio medicale, più precisamente, epidemiologico. All’indomani delle anticipazioni dell’ultimo Rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno, i rumori, gli allarmi dapprima, e poi gli scritti, i proclami pubblici, le fallaci(ane) lettere a un meridione mai nato, infine il decisionismo del governo Renzi, ha seguito un suo crescendo ritmato dal gergo medicale.
SVIMEZ: “il Sud scivola sempre più nell’arretramento”
Il ministro dello Sviluppo Guidi ha invocato in tempi brevissimi delle soluzioni alla crisi del Mezzogiorno: lancia in resta ha convocato gli Stati Generali dello Sviluppo Economico nel prossimo autunno, giacché «al Sud non serve un miracolo, ma una terapia decisa e duratura nel tempo».
Roberto Saviano ha invocato una svolta che non passi tramite l’istituzione di nuovi interventi speciali, sulla falsariga della Cassa per il Mezzogiorno, adoperando allusivamente un lessico medicale per rappresentare lo stato in cui versano l’economia meridionale, ancor peggio negli ultimi quindici anni della stessa Grecia, sotto attacco dei dispositivi orientalistici di matrice teutonica e delle conseguenti misure disciplinari della governance neoliberista. Per inciso, ma non per caso: è sintomatico che il paragone, se non l’analogia sud-Grecia sia usato, nelle stesse ore, da quel ceto politico siculo-renziano che, dalle proprie fortezze romane all’interno del ministero dell’Istruzione, dopo aver portato a termine il compito di sfasciare definitivamente la scuola pubblica spara sul quartier generale dell’amministrazione regionale siciliana per procedere all’assalto del palazzo (d’Orleans), mescolando la “Sicilia Grecia d’Italia” con il consueto sporco gioco di registrazioni e dossieraggi in cui da sempre eccellono le classi dirigenti siciliane (non importa se formalmente “legali” o meno).
A ben guardare, malato e malattia sono termini introdotti nel linguaggio delle scienze sociali a partire dall’ultimo quarto del secolo XIX. Uomini di scienza autorevoli, per lo più allievi della scuola di Lombroso ne avevano segnalato la presenza assai per tempo: sangue, razza, natura. La diagnosi era stata, in fondo, abbastanza semplice: malattie derivanti dalla circolazione sanguigna. A distanza di un bel po’ di tempo, sul Sud Italia o anche sull’Europa mediterranea si dispiegano nuovamente l’intera panoplia diagnostica di una vera e propria medicina sociale: eziologia endogenista, ascrittiva, genotipica, e ancora paradigma ecologico, spiegazione fenotipica della malattia con l’ambiente, con le trasformazioni storiche di questo, e via di questo passo. All’interno di queste polarità, si snoda una gamma assai articolata di posizioni con differenti diagnosi, diverse prognosi e terapie. Beninteso, l’insieme dei profili clinici ascrive concordemente questa malattia chiamata sottosviluppo almeno a due caratteristiche salienti: la sua irriducibile natura di sintomo (esso rinvia sempre a una patologia “diversa”, più profonda, meno visibile); e il suo effetto nell’inutilità delle reazioni, che siano di sommovimento sociale oppure di coscienze civiche delle popolazioni, entrambe esiti che non danno luogo direttamente ad alcun beneficio riparatore per il corpo malato, limitandosi a segnalare un disagio che deve comunque essere curato con altri mezzi.
Le reazioni al rapporto Svimez sono state, da una parte, l’invocazione ministeriale di una «terapia decisa e duratura»; dall’altra, il ritualistico j’accuse che addita il paziente in condizioni gravi, quanto non addirittura morto. Ma c’è dell’altro. L’immagine della prima pagina del quotidiano il Mattino all’indomani del terremoto del 23 novembre 1980: “fate presto”. Un allarme che evoca incubi, paure e invoca interventi urgenti, cauterizzazione della ferita e un’operazione chirurgica con innesto di dispositivi terapeutici permanenti. Un eufemismo che, a memoria, è stato utilizzato anche durante l’epidemia colerica dell’estate 1973. Ciò che si perde per strada, nel seguito di questi allarmismi dai tratti ansiogeni, sono i processi storici, gli effetti della produzione di questo discorso pubblico: in altri termini, le conseguenze sociali degli interventi emergenziali sorti proprio di riflesso a queste invocazioni terapeutiche. Quel “fate presto” dell’Ottanta si è concretato in clientelismo e corruzione, in consolidamento di quell’annichilimento sociale a seguito della repressione sociale di fine anni Settanta, in cementificazione selvaggia e imbarbarimento sociale quali dispositivi militari dell’alleanza imprenditoriale politico-criminale.
Emblematico che fra i primi a commentare il rapporto Svimez sia statoMassimo Gramellini, che ha imbastito un potpourri di incubi, luoghi comuni, con un pizzico di realpolitik, il tutto condito dal pittoresco sul Mezzogiorno. Non può, l’editorialista de La Stampa, che osservare il Sud come oggetto geografico, iscrivendosi all’interno di quella schiera di scrittori che hanno attinto, in una versione debole e letteraria della geografia dell’immaginario, all’apparato ermeneutico dell’orientalismo in un solo paese, fanfara d’accompagnamento alle aspre pratiche di governo “dall’esterno” che seguirono l’unificazione nazionale e che ricalcavano assai da vicino quelle coeve, adottate da altre potenze europee nei propri possedimenti coloniali. «L’Europa finisce a Napoli e vi finisce assai male. La Calabria, la Sicilia, tutto il resto appartiene all’Africa», annotava ai primi dell’Ottocento Creuzé de Lesser sul suo taccuino di viaggio: ecco lo sfondo che accompagna l’ordine del discorso sollevatosi a ridotto del rapporto Svimez. Ed ecco perché per la rinata questione meridionale si invocano le stesse soluzioni proposte un secolo fa da giornalisti e politici che all’epoca, tutto sommato, erano mossi da un buon senso, da “studi matti”, se non da una sorta di generosità intellettuale: in questo ricorsivo storytelling, il Sud è inchiodato alla trave del sottosviluppo che richiama una terapia d’urto duratura, se non uno stato di eccezione permanente.
Sottosviluppo, pessime retoriche e nostalgie sovraniste
Eppure non sono una novità gli studi che differentemente da queste soluzioni hanno letto in contrappunto la questione meridionale. Stato e sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno d’Italia, di Luciano Ferrari Bravo e Alessandro Serafini, ricerca finanziata dal CNR e pubblicata nel 1972 – bona tempora currebant – , ristampata per ben 4 volte fino al 1980, messa poi alla berlina tra le carte giudiziarie del 7 aprile ’79, aveva ben illustrato sviluppo e sottosviluppo come funzioni di governo e non stadi da cui entrare o uscire. In quelle pagine, noi meridionali irregolari che le abbiamo lette anni e anni dopo, abbiamo subito trovato quello che più ci serviva: un rifiuto netto della “questione meridionale” come era stata costruita dalla tradizione PCI, e dalla sua parte “amendoliana” in modo particolare. Che aveva accompagnato, tra l’altro, questa costruzione con una non moderata dose di stalinismo e di espulsione di reprobi, di riduzione al silenzio di altre voci dal Sud discordanti. Per entrare nel clima del PCI napoletano, in cui quella versione del meridionalismo si costruiva e si difendeva, il lettore può andare a leggere il Mistero Napoletano di Ermanno Rea, e una sua recente appendice, Il caso Piegari, in cui si racconta come Giorgio Amendola soppresse il quasi dimenticato “Gruppo Gramsci” in nome del meridionalismo come imperativo dello sviluppo e dell’integrazione nazionale, e Togliatti lasciò fare: il nome di Gramsci doveva essere speso – e neutralizzato – solo per costruire integrazione nazionale, e fare del PCI al Sud un buon alleato della borghesia “sviluppista”, in nome dell’interclassismo e della buona collaborazione nazionale “produttiva”, e, ovviamente, della chiusura definitiva della rottura apertasi con le lotte dei braccianti e con l’occupazione delle terre. Nella ricerca di Ferrari Bravo e Serafini, molti di noi hanno invece trovato, contro questo meridionalismo per bene e integrato, tricolore e sviluppista, i materiali per leggere sviluppo e sottosviluppo per quelli che sono stati: dispositivi di governo, modi per controllare la mobilità interna della forza lavoro, per esorcizzare il pericolo che le migrazioni interne “eccedessero” il comando del capitale e rivelassero di che ferocia fosse fatta quella “buona” integrazione nazionale. Tra quelle letture, e un Gramsci finalmente liberato dal populismo nazionale dell’operazione Togliatti, e riletto facendogli fare il “giro lungo” attraverso gli studi subalterni, alcuni di noi hanno provato a costruire l’immagine di un meridione certo “subalterno”, ma nel senso di “altro” rispetto alla diade omogeneizzante sviluppo/sottosviluppo, un Sud eterogeneo, plurale, non iscrivibile nella freccia del tempo lineare. E neanche rappresentabile come uno spazio liscio e chiuso: un Sud non riducibile ad una regione o ad un’area, ma aperto al transito e alla trasformazione, con le frontiere continuamente riscritte dalla forza migrante, tragicamente e inutilmente combattuta dai custodi della fortezza, ma inarrestabile motore del “divenire-sud”. Abbiamo collezionato insomma meridionalismi eretici e sguardi laterali, per costruire alternativa al meridione da “medicalizzare”, cauterizzare, curare, sviluppare a tappe forzate. Ma per rompere completamente anche con la retorica del Sud “vittima”, ribaltamento speculare della retorica dello sviluppo, magari per celebrare improbabili rotture “da sud” del tutto coincidenti con il sogno dei falchi tedeschi di “spaccare” l’Europa lungo l’asse mediterraneo.
E oggi ci tocca vedere infatti eredi del PCI come Fassina, che intonano, in nome dell’“area euromediterranea”, la pessima retorica del “fronte di liberazione nazionale”, dell’alleanza tra nazionalisti di destra e di sinistra, in nome della sovranità. Sempre ancora la vecchia questione: possono voler piegare il Sud alla “norma dello sviluppo”, come hanno tentato di fare per anni; oppure possono ora cantarne quasi secessionisticamente le lodi: ma sempre dentro l’elogio dell’omogeneità nazionale e “sovrana”. Ma i meridionalismi eretici ci hanno insegnato che proprio questo è il punto: che il Sud è abitato da resistenze eterogenee e da una cooperazione sociale che non è riducibile né alla linearità sviluppista né al comando sovrano. Altro che lo sviluppismo feroce dei Gramellini e di tutti i suoi fratellini custodi della teologia del debito o lo speculare neomeridionalismo d’accatto degli “antieuropeisti” dell’ultima ora: la “leva meridiana” è semmai apertura e trasformazione europea, strada complessa che dice OXI alla logica del debito e alla ferocia disciplinare del comando finanziario, ma che nessuno può ridurre alla tristezza melanconica del sovranismo di ritorno. Lo sguardo da Sud è critica dell’omogeneo, del nazionale: e, per carità, anche del nazional-popolare dei Fassina e degli improvvisati “fronti di liberazione”. Siamo sud, e quindi sicuramente subalterni: ma popolo e nazione sarete voi, noi siamo semmai eterogeneità, transito: né moderni, né antimoderni, semmai altermoderni. Né disciplina del debito, ma neanche dracma o lira: semmai, come quel meridionale di Diogene il Cinico di cui ricordava Foucault, proviamo continuamente a falsificare la moneta (embé, siamo falsari e truffatori…), ad “alterare la moneta”, e a combattere per strapparla al comando finanziario e riportarla alla misura della nostra cooperazione sociale. E certo, così, per i buoni sostenitori dell’Europa tedesca come per i nostalgici nazionalisti e sovranisti, il Sud resta sempre un elemento irriducibile di corruzione.
È divenuto ormai tautologico che le narrazioni del Sud rinviino automaticamente a clientelismo e corruzione. Beninteso: questi “mali” esistono a Nord come a Sud, in Occidente come in Oriente. È con la nascita di un moderno sistema elettorale tra Otto e Novecento, con la costituzione di collegi uninominali in Italia, che le realtà locali si mettono in una comunicazione partecipativa nuova con lo stato. Leopoldo Franchetti, politico, economista e meridionalista, liberal-conservatore ma intellettualmente onesto, aveva notato che il fenomeno del clientelismo nasce con la formazione del sistema elettorale. Il problema dello spirito pubblico italiano e meridionale risiede nello svolgimento storico del sistema politico e nel gioco che si è stabilito nel corso dei decenni tra esso e le forze culturali e politiche locali. E ancora: la corruzione è uno strumento connaturato all’economia capitalistica. Per tante ragioni. Alcune riguardano il capitolo dei costi di produzione; altre le agevolazioni nella domanda e nell’offerta; altre ancora nei controlli da parte dello Stato sul mercato, sulla fiscalità, sull’applicazione di leggi e norme, etc.; altre, infine, la produzione “illegale” di reddito e capitali indistinguibili da quelli “legali” da immettere nel mercato. Insomma, una mano lava l’altra, e ambedue giocano in borsa…
Da Vendola a Riva via Marcegaglia: pugliesizzare l’Italia o italianizzare la Puglia?
Ma è poi veritiera, questa narrazione del sud condannato al sottosviluppo perché lasciato solo? O non si tratta piuttosto di uno specifico ordine discorsivo sul meridione utilizzato per accompagnare nuovi interventi governamentali che si pretendono finalizzati alla cura dei mali atavici? Se è così, non ci sembra casuale che anche Confindustria scenda in campo a sostegno della grande coalizione razzializzante. Il prossimo 24 settembre, infatti, il Consiglio Generale di Confindustria terrà a Taranto la propria riunione nazionale, al fine di creare «un clima di collaborazione che allontani definitivamente i focolai di ostilità; un clima di nuove prospettive che prendano il posto delle vecchie logiche e dei falsi preconcetti».
Le parole sono, come sempre, importanti. Ostilità si inserisce nella narrazione consolidata della locale Confindustria, richiamando un precedente corteo cittadino organizzato proprio da Confindustria contro “la citta dei no”. Focolaio, invece, con la sua sfumatura medicale allude alla “epidemia da estirpare” con interventi ad ampio raggio, potenzialmente invasivi e forse parzialmente invalidanti, ma quanto mai necessari.
Confindustria ammette che «la parabola Ilva traccia, infatti, oggi uno dei suoi picchi più alti di conflittualità», ma si dice sicura che la riunione programmata «segnerà un passo fondamentale nella battaglia che tutti insieme stiamo conducendo». Questo utilizzo disinvolto del tutti insieme ben rappresenta l’ampiezza – tendenzialmente totalizzante – dello schieramento nel quale si inscrive l’associazione datoriale. Si tratta di affermazioni tutt’altro che politicamente innocenti: nello schema configurato, da una parte risiede la totalità delle opzioni sociali e politiche mobilitate contro i falsi preconcetti, dall’altra i focolai di ostilità che minano alla radice la possibilità di una riscossa cittadina.
Nell’immaginario mondo confindustriale, nell’analisi del contesto tarantino – città governata dalla doppia scure delle crisi ambientali e sociali – sparisce la cruda violenza dei decreti governativi a sostegno dell’inquinante produzione siderurgica e, in un sol colpo, evapora anche tutta la fitta trama di relazioni amministrative, politiche, ecclesiastiche e poliziesche mobilitate dalla governance dello stabilimento a sostegno della ragion produttiva dei Riva. La colpa della doppia crisi è, invece, direttamente imputabile alla citta dei no, animata da vecchie logiche. Il fine è chiaro: colpevolizzare il dissenso per dominarlo; e la fantasiosa ricostruzione dei fatti agitata da Confindustria sembra potenzialmente in grado di produrre effetti concretissimi, per esempio dal punto di vista della gestione dell’ordine pubblico e della conflittualità in piazza, nell’autunno che viene.
La scelta di Confindustria di far base a Taranto per la ripresa autunnale lancia messaggi che interagiscono non solo con ciò che agita Taranto, ma che Confindustria utilizzi l’universo simbolico rappresentato dalla città ionica per parlare direttamente a tutto il meridione, e l’ordine del discorso utilizzato per indicare ipotesi disciplinanti contro i falsi preconcetti che agitano i due mari abbia come reali destinatari tutti i focolai di ostilità animati dalle ribelli subalternità meridiane.
Parlare di narrazioni e ordini simbolici a Taranto non può non richiamare la fine della parabola vendoliana, mentre il suo successore minaccia di «scatenare l’inferno», forse dimenticando che in fondo a un inferno, nei sud del mondo, ci siamo già tutti. In tempi non sospetti, e senza doppi o tripli salti della quaglia (non avendo rendite politiche da esigere), avevamo espresso con chiarezza un giudizio sull’operato di Vendola (La parabola di Vendola e la giusta misura dello sfruttamento, novembre 2013, qui) che non abbiamo ragione di modificare: perché quale che sia l’esito delle vicende giudiziarie (delle quali poco ci cale), basterebbe la sola questione-ILVA a svelare il vero volto del rapporto fra Stato, imprenditoria privata e Mezzogiorno.
Dietro la narrazione vendoliana, il governo “di sinistra” della Puglia ha consentito all’ILVA di continuare a inquinare come prima, salvo avvalersi di una legge ad hoc che consentiva di mentire a norma di legge sulle emissioni inquinanti. Così come, ben più della (infame, sotto il profilo etico e politico) telefonata al factotum di padron Riva, parlano le dichiarazioni di Vendola alla presenza di Riva e Marcegaglia sui comuni valori cristiani, enunciate subito dopo l’avvertimento di Emma Marcegaglia (un’altra che ha tratto lauti profitti dalla joint-venture con l’amministrazione Vendola-Fratoianni) che «Se le imprese perseguissero solo ed esclusivamente i criteri ambientali sparirebbero nel giro di poco tempo, ma soprattutto resterebbero aziende che non fanno il loro mestiere» [nell'immagine in alto: clicca per ingrandirla]. Nel frattempo, la cruda realtà della cronaca nera, che narra di donne e migranti uccise non dal caldo, ma dallo sfruttamento bestiale nelle campagne, ci dice che non un solo lavoratore è stato sottratto al caporalato, così come non una sola goccia d’acqua è stata sottratta al monopolio illegale della malavita organizzata negli anni in cui, lungi dal “Pugliesizzare l’Italia”, è stata italianizzata la Puglia: ovvero, sotto la retorica del diritto al lavoro, si è cercato di cancellare la possibilità di un modello alternativo alla tenaglia salute-lavoro, di un modello di sviluppo che prescindesse dall’imposizione neo-coloniale delle grandi fabbriche inquinanti come unica alternativa benignamente concessa dallo Stato alla barbarie del caporalato e della miseria endemica. Con grande soddisfazione, ma che te lo dico a fare, di tanti intellettuali da salotto, sempre pronti a invocare uno Stato, un’ILVA, un modello di sviluppo “buoni” e “puliti”, e a tacciare di neo-borbonico chi si azzarda a sovvertire quest’ordine del discorso: chi non salta è Pino Aprile!
Quanto al meridionale, una volta accettata la sua natura rustica, da “buon selvaggio”, viene buono per suonare la pizzica e la taranta, più o meno come Sam suonava il piano al Rick’s Café mentre i destini della lotta antifascista mondiale erano messi in pericolo dagli occhi languidi di Ingrid Bergman, in quelle Puglie e Basilicate cinematografate senza che mai si incontri un migrante, un lavoratore o lavoratrice con la schiena spezzata nei campi, un cane randagio, una discarica abusiva. E pazienza se in questo paradisi, nel quale si va con la stessa coscienza etica con la quale si andava a Sharm el-Sheikh mentre la sbirraglia di Mubarak sparava in Piazza Tahir, deve intervenire un prefetto a salvare le dune della spiaggia di Ozpetek, spianate per far spazio a sdraio e ombrelloni.
Qualche lettore fuori tempo massimo di Baudrillard potrà evocare la “derealizzazione” e la scomparsa dei fatti ad opera delle narrazioni: laddove gli storytelling sul meridione sono effetti di verità che producono fatti, invece di celarli. Perché concorrono, con valore performativo e non solo ideologico, al funzionamento di una macchina sommersa di lavoro tanto nero quanto vivo, di produzione di reddito e valore attraverso le mille pratiche precarie della cooperazione sociale, de lwelfare autogestito con le quali una popolazione tenuta a livelli di disoccupazione “ufficiale” a due cifre si arrabatta per produrre da sé quello che avrebbe diritto di ricevere “senza oneri per lo Stato” (che può disporre di un surplus di ricchezza da finanziarizzare), mentre il sistema produttivo del nord Italia può disporre, grazie alla cosiddetta “fuga dei cervelli” (e dei corpi, e della socialità), di due terzi del capitale intellettuale nazionale, e può giocare al ribasso su prezzi e salari, disponendo di un’ampia sacca di mercato dopato all’incontrario da un sottosviluppo che produce valore, reddito, e governo emergenziale del territorio – equamente diviso fra governance “criminale” e governance di Stato (o forse: diversamente criminale).