Contrabbando e altre denunce di Leogrande
di Angelo Ferracuti
Quando nel 2003 Alessandro Leogrande (Taranto, 20 maggio 1977- Roma, 26 novembre 2017) pubblica per L’Ancora del Mediterraneo il suo secondo libro, Le male vite, ora riproposto da Feltrinelli con una prefazione di Gianfranco Bettin, è giovanissimo, ha 26 anni, ma ha già un talento virtuosamente ossessivo nella scrittura giornalistica investigativa, ed è già un piccolo maestro del reportage narrativo, che contribuisce a far rinascere nel nostro Paese.
Nel libro racconta la trasformazione del contrabbando di sigarette a partire dal suo baricentro antropologico e biografico, la Puglia e il Sud d’Italia, quello di cui in quel momento ha più cognizione, dove agisce «un sistema economico “illecito” perfettamente integrato nell’economia “lecita”», canalizzato dalla Sacra Corona Unita in zone del Mezzogiorno afflitte da disoccupazione cronica e percepito come un argine contro le povertà nelle logiche del sottosviluppo, quella che chiama «la realtà dei lavori urbani marginali», come il posteggiatore abusivo, un reclutamento dei disoccupati che non riescono più a lavorare nelle campagne o a entrare in fabbrica arruolati dalle mafie o dai contrabbandieri, che però a cominciare dalla metà degli anni Novanta subisce una mutazione in un mondo in via di globalizzazione.
Quindi è sulla scia del Pasolini corsaro, che non a caso cita all’inizio del volume, e consapevole che «il crimine è uno specchio straordinario delle trasformazioni sociali. Il crimine non è mai attività delinquenziale fine a sé stessa, né semplicemente la manifestazione del male, dell’illecito, della frode, della violenza», ma soprattutto «ha a che fare con la produzione di denaro, con la sua accumulazione e la sua redistribuzione. Ha a che fare con i rapporti di forza insiti nelle società che attraversa, con i palazzi del potere politico, con i consigli d’amministrazione delle multinazionali, con l’internazionalizzazione dei mercati finanziari, con la delocalizzazione della produzione, con l’erosione delle funzioni degli Stati nazionali, con la privatizzazione del mondo».
Da questo campo politico perfettamente centrato anche da un punto di vista storico parte la sua ricerca, che come sa chi ha avuto come me la fortuna di conoscerlo e frequentarlo, svolgeva con grandissima serietà, documentazione maniacale, coraggio, passione civile e con il senso di responsabilità di un intellettuale, forse l’unico della sua generazione in senso novecentesco, che sentiva un legame di responsabilità con la comunità e la nazione, soprattutto con quelle minoranze culturali, politiche, di cui era interprete e militante generoso, e che cercava di far esprimere soprattutto attraverso il lavoro prezioso svolto alla rivista «Lo straniero».
Nella scrittura di Leogrande non c’è mai autocompiacimento stilistico, spia del narcisismo autoriale, né spettacolarizzazione: è una scrittura, una letteratura, alternativa alla fiction ormai totalizzante nella società dello spettacolo, sempre mirata e al servizio dei fatti e del cittadino lettore, con un abile montaggio di porzioni di senso, collegamenti, ragionamenti, ricostruzioni, storie dal vero. Direbbe un maestro di cui ha seguito gli insegnamenti, Ryszard Kapuscinski: «È facile distinguere il buon giornalismo da quello cattivo: nel buon giornalismo, oltre alla descrizione dei fatti c’è sempre la spiegazione delle cause».
Intervistato da Marino Sinibaldi a «Fahrenheit» nel novembre del 2003 Leogrande spiega che «non è possibile capire il contrabbando di sigarette se non si capisce il percorso che fanno per rifornire un mercato enorme; è anche una questione di geopolitica del crimine», parla di «multinazionali che hanno immesso le sigarette di contrabbando per conquistare mercati che non sarebbero stati conquistati per le vie legali». Fa i nomi di quelle già segnalate dalla Commissione antimafia: «Le due maggiori multinazionali del tabacco, la Philip Morris (Philip Morris e Marlboro) e la R.J. Reynolds (Camel e Winston), curavano da Basilea, nell’ambito di export two, l’esportazione di tabacchi lavorati esteri verso i Paesi europei e del Medio Oriente attraverso tre società concessionarie: la Algrado AG di Werner Denz, la Balmex AG di Patrick Laurent e la Basilio AG di George Kastl». Sigarette che arrivavano dal Montenegro, dove il 50% del prodotto interno lordo proveniva da questa attività. Impressiona riascoltare la sua voce pacata e sicura, mite ma implacabile nel destrutturare i meccanismi perversi e crudeli della società contemporanea, le nuove mutazioni antropologiche.
Leogrande intervista magistrati, ricostruisce dalla cronaca scenari di guerriglia tra contrabbandieri e Guardia di finanza ai posti di blocco, come l’operazione Primavera del 28 febbraio 2000, fortemente voluta dal ministro dell’Interno Enzo Bianco e dai vertici di polizia e carabinieri, una vittoria dello Stato.
Ormai, come scrive l’autore, «il “mercato del tabacco” ben evidenzia il processo di internazionalizzazione e di finanziarizzazione delle nuove mafie», un elemento che Leogrande coglie appieno nella sua nuova complessità strutturale, spia di un cambiamento epocale. Ormai i suoi libri sono diventati dei piccoli classici come Uomini e caporali, Il naufragio e quello che considero il suo apice, La frontiera, tutti editi da Feltrinelli, metafora del mondo diviso in due, la linea invisibile che divide il pianeta, un luogo geografico che è anche un immaginario mobile, le due opposte traiettorie di due mondi nettamente separati, l’Occidente opulento e consumistico del parossismo capitalistico, e un Sud del mondo povero, dilaniato dai conflitti bellici, senza diritti e senza democrazia, un grande reportage di taglio internazionale dalla grande forza espressiva e l’immaginario potente.
Ci manca Alessandro Leogrande, scrittore di onestà intellettuale assoluta, di una generosità disarmante, rigoroso, colto, informatissimo, assolutamente privo di narcisismo, morto davvero troppo presto, proprio quando avevamo bisogno della sua voce che in quel momento stava diventando sempre più forte.
La Lettura, Domenica 28 marzo 2021