COSA FARE DEL SUD
di Oscar Iarussi
Che palle, il Sud. Come dite? No, non ci sono le virgolette: non è una citazione di qualcuno, lo dicono tutti. È un pensiero talmente interiorizzato, incistato nel corpaccione flaccido sebbene elettrico dell’opinione in pubblico, da risultare veritiero agli occhi dei più (nessuna traccia di opinione pubblica). Una fisiologia dell’insofferenza e dell’indifferenza avvolge e travolge la questione meridionale che per poco meno di un secolo e mezzo dopo l’Unità d’Italia, dal 1861 agli anni ’90 del Novecento, fu la questione nazionale per eccellenza, una diagnosi condivisa nonostante prognosi e terapie fossero spesso divergenti.
Che palle, il Sud. Oggi a sbuffare sono innanzitutto i meridionali che magari in stagioni diverse hanno coltivato l’idea di cambiarlo, il Sud, a dispetto del culto della sua immobilità perpetuata da una larga letteratura, fin da alcune magnifiche pagine di Verga e Tomasi di Lampedusa. Quanto ai giovani, appena possono, semplicemente se ne vanno, via, lontano, altrove. È una fuga di massa, una emorragia lenta e non percepita tranne quando – come nel caso del Rapporto Svimez di ieri l’altro – vengono diffusi i dati statistici sulla disoccupazione, le iscrizioni universitarie, la natalità, la demografia d’impresa, che parimenti depongono per una epocale «desertificazione» del Sud. Allora scatta una sorta di allarme silenziato e ritardato, comunque passeggero, quasi che di fronte a un incendio devastante si sussurrasse «Al fuoco! Al fuoco!» pur di non disturbare le contingenze del Palazzo in prima pagina (ieri la riforma della Rai era considerata più rilevante del Sud in crisi da quasi tutti i quotidiani).
Certo, l’apprensione per le magnifiche sorti e regressive del Mezzogiorno colleziona un tot numero di «mi piace» su Facebook, un regno che ha messo al bando il «non mi piace» o il «mi spiace», tanto che i like fioccano persino per le notizie luttuose. Certo, interviene qualche economista non arrendevole alla minaccia dell’incalzante desolazione, di solito rimbeccato dalla severa sentinella di turno a guardia dell’imputazione/amputazione di un terzo dell’Italia. Eppure non risulta che una qualsivoglia nozione di sviluppo abbia mai previsto il sacrificio di una parte per risolvere i problemi dell’altra o del tutto non più tutto, per esempio l’espulsione di uno Stato più povero da una confederazione. Mentre è accaduto il contrario, da ultimo con l’unificazione tedesca dopo la caduta del Muro nel 1989: stringere la cinghia per favorire la crescita altrui, consentirgli di mettersi al passo e rinforzare il Paese intero.
Sarebbe, questo, l’orizzonte proprio della politica, nata d’altronde per contendere il futuro al vaticinio. Invece da tempo i politici hanno assunto l’analisi e la proposta tra i compiti voluttuari, se non dannosi ai fini del consenso immediato. Intanto un’intera generazione, e presto saranno due, viene scoraggiata a rimanere nel Mezzogiorno d’Italia o addirittura «costretta» alla partenza europea dal genitore benestante e lungimirante e, suvvia, improvvisamente protestante. Laddove per «europea» assai di rado s’intende una destinazione greca o portoghese, perché per gli europei del Sud l’Europa è quella del Nord, la Francia, la Gran Bretagna, l’Olanda, e, über alles, l’amata/odiata Germania. Sicché, andrà bene infiammarsi di residue passioni politiche in favore di Alexis Tsipras o fare le vacanze nelle isole dell’Egeo (un’inedita, implacabile forma di militanza di sinistra), va meno bene lasciare che i ragazzi studino a Bari, Napoli, Cosenza, Palermo e lì crescano, s’innamorino, comincino a lavorare perché nel frattempo un po’ di lavoro in più è stato generato.
Che palle, il Sud. «Fujtevenne ‘a Napule», tuonò Eduardo De Filippo a metà degli anni Settanta. L’amaro invito era rivolto ai giovani attori che erano e sarebbero rimasti ancora per un pezzo senza un Teatro Stabile partenopeo. Però al «Fujtevenne ‘a Napule» noi continuiamo a preferire il celebre motto «Ha da passa’ ‘a nuttata». La frase finale di Napoli milionaria! (1945), malgrado il pessimismo del testo, assurse a emblema del dopoguerra e della fiducia italiana nella rinascita.
Ecco un punto cruciale. Il racconto teatrale, cinematografico, letterario e giornalistico delle macerie e delle miserie post-belliche suscitava sì le rampogne dei politici («I panni sporchi si lavano in famiglia»), tuttavia le polemiche non paralizzavano l’azione di governo, anzi, fungevano da stimolo. E l’immagine del Paese, in special modo del Sud, non era disgiunta dalla realtà: un filo tra le storie e la Storia c’era sempre, talvolta esile o ingarbugliato, sebbene visibile, effettivo, concreto.
Quel racconto realistico e autentico del Mezzogiorno va oggi ripreso, con le sue ombre ma anche con le sue luci spesso non viste o colpevolmente sottaciute. È un aspetto non secondario della questione, raccontare la sostanza del Sud, dopo anni di affabulazione o di propaganda, di storytelling o di «narrazioni» in salsa pugliese, che guarda caso segnano il declino sia della letteratura sia della vita nazionale. Perché, come dire?, aggiornando ai tempi di Twitter un bel verso di Bodini… #Tunonconoscilsud.
La Gazzetta del Mezzogiorno, 3 agosto 2015