Svendi-Italia
di Tommaso Montanari
Noi, al contrario, crediamo che sarebbe straordinariamente necessario e urgente restituire questi immobili alla loro funzione sociale e costituzionale. L’articolo 26 del decreto stabilisce che ciascuno degli 8.057 comuni italiani possa presentare un proprio progetto per cambiare destinazione agli immobili non utilizzati appartenenti al demanio dello Stato. Così una caserma potrà diventare un centro commerciale, una biblioteca trasformarsi un albergo, una vecchia manifattura tramutarsi in un condominio di lusso. E non basta: questa variante urbanistica dà diritto all’Agenzia del Demanio di vendere, dare in concessione o cedere il diritto di superficie di quell’immobile, o complesso immobiliare.
E allora, che cos’hanno da guadagnarci, i Comuni? Una taglia. Proprio così: il comma 8 prevede un compensoper i sensali della svendita del patrimonio pubblico. Una vera e propria taglia sul patrimonio degli italiani: “Gli enti territoriali che hanno contribuito... alla conclusione del procedimento” di “valorizzazione o alienazione” possono accedere a “una quota parte dei proventi”. Lo Sblocca-Italia, insomma, getta la maschera: “valorizzazione” e “alienazione” sono ormai sinonimi, interscambiabili, equivalenti. E quando si legge che l’articolo 10 dispone il potenziamento dell’operatività della Cassa depositi e prestiti, ampliandone gli ambiti fino ad includere la “tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale”, un brivido corre lungo la schiena: ecco la nuova frontiera della distruzione materiale e morale del “paesaggio e del patrimonio della nazione” (articolo 9 della Costituzione). Non è una novità: anche in questo Matteo Renzi è solo un efficiente megafono del peggio degli ultimi vent’anni. L’alienazione del patrimonio culturale è una sottospecie, particolarmente grave e dolorosa, dell’alienazione del patrimonio immobiliare pubblico, che a sua volta rappresenta la fase finale del gigantesco processo di privatizzazione del sistema delle partecipazioni statali, intrapreso dal 1992 in poi Praticamente nessuno ha privatizzato più di noi: l’Italia è al secondo posto nel mondo, dopo il Regno Unito e prima di Francia, Germania e Spagna. E abbiamo venduto per l’enorme controvalore di circa 205 miliardi di euro, ai valori correnti. Nonostante tutto questo il debito pubblico è aumentato, e i vantaggi per i cittadini sono stati assenti, o minimi. Il che ha spinto 27 milioni di italiani a votare (per il 95,5%) contro la privatizzazione dell’acqua, nell’unica occasione (il referendumdel 2011) in cui siamo stati chiamati a pronunciarcisu questo processo che ha cambiato profondamente le nostro vite. Sul piano sociale i risultati sono stati anche peggiori: le privatizzazioni si sono accompagnate a un brusco aumento della diseguaglianza, e gli indicatori di povertà assoluta mostrano una dinamica del tutto simile. E bisogna rammentare che, in Italia come in tutto l’Occidente, “la stessa agenda della privatizzazione e liberalizzazione è stata profondamente corrotta: ha fatto confluire rendite elevate nelle mani di chi usava la propria influenza politica per portarla avanti” (Joseph Stiglitz).
Quando, dopo un decennio di fuoco, la forza propulsiva della privatizzazione delle imprese statali iniziava ad affievolirsi (anche perché la materia prima cominciava a scarseggiare), è stata la volta della svendita del patrimonio immobiliare, che decollò davvero con la creazione della Agenzia del Demanio (1999), arrivando a cedere immobili pubblici per un controvalore di circa 25 miliardi di euro. Dopo una serie di tappe di avvicinamento, tutte dovute a governi di Centro-sinistra, l’apice della privatizzazione del patrimonio si toccò, grazie a Giulio Tremonti, con la Patrimonio dello Stato spa (2002), una società per azioni che, almeno teoricamente, avrebbe potuto gestire e alienare qualunque bene della proprietà pubblica. Come scrisse allora Salvatore Settis, “il patrimonio culturale italiano non è mai stato tanto minacciato quanto oggi, nemmeno durante guerre e invasioni: perché oggi la minaccia viene dall’interno dello Stato, le cannonate dalle pagine della Gazzetta Ufficiale”. Anche grazie a quella resistenza, il progetto megalomane della Patrimonio dello Stato spa si arenò, ma in questi dodici anni il suo spirito distruttivo è risorto molte volte.
Tra le reincarnazioni più recenti si possono segnalare la legge 248 del 2005, per la quale “nell’ambito delle azioni di perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica attraverso la dismissione di beni immobili pubblici, l’alienazione di tali immobili è considerata urgente con prioritario riferimento a quelli il cui prezzo di vendita sia determinato secondo criteri e valori di mercato”. E ancora la legge 133 del 6 agosto 2008, che dispone la ricognizione del patrimonio immobiliare degli enti locali (il cespite oggi più succoso), al fine “della redazione del piano delle alienazioni”. E poi soprattutto la 85 del 2010 sul cosiddetto “federalismo demaniale”, che prevede il conferimento agli enti locali, e la possibile, successiva alienazione di beni demaniali, ivi compresi quelli storici e artistici: com’è avvenuto, per esempio, a Venezia per Cà Corner della Regina sul Canal Grande, venduta dal Comune a Prada per far tornare i conti del bilancio ordinario.
Come ha scritto Paolo Maddalena, “si tratta di provvedimenti legislativi di una gravità eccezionale, che vanno contro la lettera e lo spirito della Costituzione. Questa mira ad un’equa ripartizione dei beni tra tutti i cittadini, ispirandosi al principio di eguaglianza sostanziale e ai criteri dell’utilità generale e del preminente interesse pubblico. Queste leggi, invece, tolgono a tutti i cittadini per favorire, in un primo momento, i residenti di ogni singola regione, e in un secondo momento, addirittura singoli privati cittadini”. L’ormai fitta legislazione che lo Sblocca-Italia viene a coronare, consegna ai manuali di storia del diritto le differenze tra beni disponibili, beni indisponibili e demanio inalienabile dello Stato, e cancella l’idea stessa di un demanio inteso come una riserva inattingibile rivolta al domani: in un presentismo senza futuro, tutto quello che oggi non riusciamo a utilizzare è, nei fatti, alienabile. Tutto è anzi potenzialmente già in vendita, e le differenze di stato giuridico tra i beni comportano solo qualche differenza tra le trafile burocratiche che preludono alla alienazione. E questo produce un gravissimo danno patrimoniale: avremo trasformato beni pubblici secolari in “liquidità” destinata ad evaporare nella prima tempesta finanziaria, e non avremo più un demanio su cui fondare le politiche sociali dello Stato. Che, d’altra parte, non esistono: il governo “Renzusconi” non ha nessun progetto sociale per lo spazio pubblico inutilizzato, spesso di notevole qualità architettonica e artistica. L’unico progetto è alienare, favorendo la speculazione e vanificando il progetto della Costituzione.
Avevamo sperato di vedere le caserme trasformate in scuole, musei, biblioteche, asili pubblici, centri culturali per i bambini, i giovani e gli anziani. E invece no: saranno outlet, resort di lusso, supermercati, sale giochi. Il punto non è (solo) tutelare quelle “cose”, il punto è conservare la funzione civile, immateriale, costituzionale dello spazio pubblico: che è uno dei pochi polmoni di libertà dalla tirannia del mercato che opprime le nostre esistenze. E invece lo Sblocca-Italia blocca le nostre vite dentro un cubo di cemento e di alienazione. Quando ad essere messo in gioco è lo spazio pubblico, a rischio è la democrazia stessa. Anche per questo lo Sblocca-Italia è una legge eversiva.
Rottama Italia, Perché il decreto Sblocca-Italia è una minaccia per la democrazia e per il nostro futuro.