Il sopravvissuto e la malattia del niente
di Veronica Tomassini
Sembrava, a guardarlo con una prima superficiale curiosità, soltanto un distinto signore segnato dai fatti della vita, a cui rispondeva vibrando la laconicità di un sorriso o l’aristocratico risentimento. E invece il suo era il distacco biblico dentro la grande ombra della Storia che i sopravvissuti cons egneranno, orrorifico basto, all ’ultimo giorno, al rintocco del destino. Nedo Fiano tuttavia replicò per anni lo stupore efferato del sopravvissuto che non si scagiona. Perché io? E non gli altri? Non solo sull ’immane poeta che Fiano indicava in Levi e sulla poetica dei cosiddetti “sommersi e salvati”, la questione era ribaltata tutte le volte, in ogni circostanza, dove Fiano non smise mai di essere l’Haftling A5405.
Lo incontrai nella hall di un albergo siciliano. Un signore alto, con un portamento epico, incredibilmente vigoroso malgrado l’età, deducibile da contingenze evidenti, su tutte: era sopravvissuto ad Auschwitz. Il sorriso era immodificabile, un segno sul viso, una piega di disprezzo verso l’ipotetico fantasma, l’etica morale franata, priva di disquisizioni, semplicemente il male a cui appendere memorie tranciate come carne ferita, tremula. “Vuole conoscere la mia compagna? ” chiese. Ho annuito, un po’ smarrita dalla domanda. Sparì, salì al piano, ridiscese con un fagottino, piegato ben bene. “Ecco” disse e mi allungò il tessuto. Tessuto ruvidissimo, pulito e stirato. Ruvido, freddo, a righe. Era la sua divisa da haftling. Haftling numero A5405.
Lessi il numero sull ’avambraccio, scoperto, che Nedo Fiano mostrò senza un sussulto. Ogni testimone dell’Olocausto, penso a Pietro Terracina anche, non ha mai dimenticato il gesto, scoprire l’avambraccio, mostrarsi. Tozzi di cera, numerati. E d’un tratto tornavano al calpestio crudele e innevato, sotto il cielo incolore, la nuvolaglia avara del campo di sterminio, Monowitz o Dachau. Auschwitz.
Nedo Fiano si salva perché è un ragazzo e parla bene almeno due lingue, una è il tedesco. Verrà sbattuto davanti ai forni. “Lo sa cos’è la malattia del niente?” mi interrogò. La malattia del niente. Colpì i sopravvissuti, quanto fu feroce esserlo? Sopravvissuti. Quando la vita tornò guardinga, ma tornò, nei decenni, allora, proprio allora con spavaldo imprevisto il male affiorava, la malattia del niente. Diceva Nedo Fiano che quando nel sorriso, nella consuetudine, nella straordinaria normalità che gli fu concessa dopo Auschwitz, tornava a pensarsi uomo come gli altri, il male lo coglieva insidioso, era di nuovo l’haftling, numero A5405.
Rimane l’icona esegetica che inchioda il male a una strutta architettonica e piramidale abbastanza precisa. C’è un brano di Se questo è un uomo che lo esprime chiaramente. Il paesaggio di Levi. Mentre sfumava gennaio e sembrava che il cielo ricordasse, nelle promesse, delle rondini di aprile, che dunque aprile sarebbe misteriosamente tornato, crudele e leggero sopra golem terrificanti, di colpo, il sole pallido illuminò alcuni di loro, haftling stralunati e cinerei, come fossero già la cera di un cadavere, gli uni e gli altri riconobbero il viso, non proprio umano, l’uno dell’altro, sotto il pallore di quel sole di gennaio, su steppe bianche lanciate verso le conifere.
Gli hafhtling come tozzi di cera sorridevano stranamente, qualcuno forse riconoscendosi in un’azione meccanica e genetica, stendere il muscolo contrito, nel tessuto cascante, nel dolore oltre l’umano, tornarvi. Levi realizzò l’ordine gerarchico della nostalgia o del dolore, del patimento, una cima piramidale, tolto uno, ne affiora un altro, scostato un male, succede un altro ancora, tutto ben riposto. L’ordine gerarchico, del male, del patimento, della nostalgia e noi lo conteniamo. Levi osservava che l’infelicità non era la somma di una sola causa, per questo gli uomini liberi sono spesso incontentabili, sulle ragioni dell’infelicità. La stessa ragione che rende inapplicabile il concetto inverso, ovvero la possibilità di essere felici.
Era la malattia del niente, diceva Fiano.
Il Fatto Quotidiano, 21 docembre 2020