Giuseppe Di Vagno, il Matteotti del Sud
di Gaetano Arfè
Per i fascisti egli non è un avversario politico, è un nemico da stroncare, il sentimento che diffondono contro di lui è quello dell'odio. Nella sua Conversano gli fanno il vuoto intorno alla minaccia, col ricatto, con la violenza, creano un clima di terrore. I giovani fascisti di buona famiglia non perdonano il transfuga di classe, il "borghese" che ha fatto propria la causa dei contadini, degli "umiliati e offesi"
[...] Di Vagno non è un predestinato al socialismo. Proveniente da agiata famiglia di media borghesia agraria, la sua opposizione all'ordine sociale esistente non è determinata dallo sfruttamento padronale, dalla miseria, dalla negazione all'accesso alla scuola - penso all'altro suo grande conterraneo, Giuseppe Di Vittorio che impara a leggere a lume di candela dopo le lunghe ore di fatica mal pagata - dalla solidarietà di classe.
La famiglia vorrebbe destinarlo al sacerdozio, ma il giovane seminarista agli studi teologici preferisce quelli di storia: si interessa alle vicende della Polonia oppressa, alla rivoluzione francese, alla Santa Russia dove impera l'autocrazia zarista e ne predilige i grandi scrittori attraverso i quali conosce le ingiustizie spietate di quella società e le nefandezze del suo regime. Quando la rivoluzione scoppierà egli la sentirà come sua e introdurrà tra i socialisti di Conversano la parola tovarich , compagno, in onore dei compagni russi che hanno rovesciato il trono e hanno conquistato il potere.
Gli studi universitari, compiuti a Roma non erano solo quelli giuridici. Studiò con entusiasmo e rigore, il socialismo ei suoi problemi non solo dottrinali ma anche politici per poterli calare nella realtà della sua terra dove Giolitti imperava con metodi che un altro pugliese illustre, Gaetano Salvemini, denunciò e bollò in un pamphlet rimasto famoso, intitolato " Il ministro della malavita ". E la malavita era governata dalla questura.
Il suo non vuol essere, e non è, il socialismo della retorica elettoralistica o congressuale, non è il socialismo dottrinario o pseudodottrinario che vuolingere la mutevole realtà dentro i propri schemi. Essere socialisti nel Mezzogiorno, per la verità, non è facile. Lo aveva riconosciuto lo stesso Salvemini, avviato agli studi da uno zio prete di nostalgie borboniche e convertitosi al socialismo a Firenze, che aveva dedicato il suo primo scritto socialista, apparso nella "Critica Sociale" di Turati alla sua Molfetta, analizzando magistralmente, in tempi in cui la sociologia non era di moda, una società che egli ben conosceva, e indicando le potenzialità e rischi cui il partito sarebbe andato incontro.Tra i rischi il più grave era quello che il giovane e candido partito dei lavoratori potrebbero diventare preda di intellettuali famelici, mal nutriti di greco e di latino, - il ritratto che egli traccia di "Cocò", il giovane che dalla natìa Puglia va a Napoli a "far gli studi" è un piccolo capolavoro di sociologia militante - pronti ad abbracciare qualsiasi fede pur di poter mettere le mani su un bilancio comunale. Per sfuggire a questo destino occorrono l'ardore dell'apostolo e la tempra del combattente: sono le doti che contrassegnano la personalità di Di Vagno.
Nel contesto storico tumultuoso di quegli anni, Giuseppe Di Vagno fa il suo ingresso, con il piglio e la baldanza del combattente, sfidando prima i mazzieri di Giolitti e poi gli squadristi di Mussolini, soccombendovi da eroe. E 'il 1913 quando, giovane avvocato, a ventiquattro anni, torna alla natìa Conversano, e parte subito all'attacco del blocco che si raccoglie intorno all'onorevole Buonvino. Il suo primo comizio è accolto da fischi e tumulti. Un anno dopo la situazione è rovesciata. La carica di umanità, la trascinante forza della sua predicazione, la possanza fisica - lo chiameranno il gigante buono - fanno di lui il capo che i contadini aspettano. Dopo la semina delle idee che dà vitalità e vigore all'organizzazione nascente bastano tre comizi a far crollare l'amministrazione comunale al potere. E '
[...] Il 1914 è anche l'anno dello scoppio della prima guerra mondiale. Giolitti è per la neutralità, Salvemini scende impetuosamente in campo per l'intervento. Il giovane Di Vagno dà in questa occasione la più limpida prova della sua autonomia, fatta di intelligenza politica, di rigore morale, di coerenza ideale.Egli denunciò che l'intervento dell'Italia in guerra era partito con un colpo vibrato alla sovranità del parlamento, dove una minoranza con punte facinorose che aveva agitato le piazze si era imposto a una maggioranza - giolittiani, cattolici e socialisti cui corrispondeva una maggioranza nel paese; lucidamente previde che la guerra sarebbe stata lunga, sanguinosa e logorante ripose nella rivoluzione russa di febbraio e in Wilson le sue fievoli e presto deluse speranze che la pace non sarebbe stata sopraffazione e vendetta dei vincitori sui vinti, fomite di nuove guerre.
Di Vagno non si lascia raggirare dalla storia. A prezzo di quella che egli stesso definì una crisi di coscienza egli seguì Turati e fece della pace la sua bandiera. "Né aderire, né sabotare" fu la formula sulla quale si arroccò, e vi tenne fede, il partito socialista. Non era una formula di ambiguo compromesso. I socialisti non aderivano alla politica della guerra perché ne ritenevano illusorie le motivazioni e ritenevano che i suoi esiti sarebbero stati disastrosi.
Soldato e poi caporale, viene congedato dopo breve periodo per un trauma subìto e si prodiga a favore dei poveri e degli sventurati profughi dalle terre invase dopo la rotta di Caporetto. Consigliere provinciale e segretario dell'Ente di consumo, provvede ad aprire uno spaccio dove i profughi possano gratuitamente rifornirsi di generi alimentari. La seduta dedicata all'approvazione di questi provvedimenti si chiude con una manifestazione di sapore nazionalistico alla quale egli rifiuta di associarsi: la solidarietà con la patria in guerra non comporta l'applauso alla politica della guerra. Diventa così già in aula bersaglio di insulti e minacce cui fa seguito un coro ignobile di pure e inverosimili calunnie: si disse che egli si era dichiarato soddisfatto che la propaganda del suo partito avesse sortito l'effetto di provocare il disastro, che nella realtà fu il frutto della incapacità professionale dei capi militari e degli spietati metodi di governo delle truppe, mandate inutilmente incontro ai massacri e tenute a disciplina coi plotoni d'esecuzione. Il nazionalismo, contro il quale egli aveva polemizzato sulla stampa locale ha trovato l'oggetto del suo inestinguibile odio cui gli eventi successivi daranno nuova esca.
Quando nel marzo del 1919 Mussolini costituisce a Milano i suoi “fasci di combattimento” Di Vagno, si può dire, è già antifascista: lo è perché è socialista, lo è perché è meridionalista, lo è perché il suo meridionalismo è socialista e affida ai contadini, alle loro leghe, al loro partito la parte di protagonisti del loro riscatto.
A guerra finita, in Puglia come in altre ragioni agricole dove il socialismo non ha tradizioni antiche e diffuse organizzazioni di massa, sorge un movimento combattentistico a base contadina con una forte impronta meridionalistica e un programma di radicali riforme. Di Vagno anche questa volta vede più chiaro e più lontano del maestro Salvemini. Non è possibile tenere lungamente insieme in una comune battaglia uomini di varia o nulla fede politica, di diversa estrazione sociale col solo vincolo di una esperienza collettivamente drammaticamente vissuta ma che perderà di forza al passo conl'affievolirsi dei ricordi. Di fatto, a dare una ideologia al combattentismo sarà il nazionalismo, a dargli una politica sarà il fascismo.
Il biennio che segue è passato alla storia come il "biennio rosso". La marea della protesta che monta sale dal fondo della società italiana e la percorre tutta dalle Alpi alla Sicilia, penetra, con effetti vari, in tutti gli ambienti politici. Di Vagno anche questa volta non dissocia la fede dalla ragione. Gli amati tovarich non potevano non ricorrere alle armi per rovesciare lo zarismo, non potevano non rispondere con le armi all'aggressione militare degli eserciti vincitori e alla guerra civile fomentata dalle potenze alleate. Ma il socialismo non si crea demiurgicamente a colpi di decreti emanati da un potere autoritario, è costruzione cosciente e graduale delle masse proletarie raccolto intorno alle proprie istituzioni che operando e lottando si abilitano ad amministrare un ordine nuovo.
Questa è la linea di discrimine, mai inquinata da settarismo, che lo divide dai comunisti e dai massimalisti. Il suo punto di riferimento è ancora il riformismo turatiano. Qui, però, un brevissimo chiarimento è necessario. Da parecchi anni a questa parte l'abuso e il maluso del termine riformismo ha finito col togliergli ogni significato. Quando la parola entrò nel gergo politico corrente Turati tentò di respingerla: per lui esistevano due socialismi soli, quello di chi sapeva e quello di chi ignorava che cosa il socialismo fosse. Di Vagno lo sapeva. Contro il riformismo socialista, agitando lo spauracchio del bolscevismo, contro i Matteotti e contro i Di Vagno, si costituisce lo squadrismo agrario, quello che un uomo non sospetto di simpatie democratiche quale Gabriele D'Annunzio definirà lo schiavismo agrario. Il primo campo di sperimentazione dei suoi metodi di lotta sociale e politica è il Polesine di Matteotti, è la Valle Padana, dove oggi, in tutt'altro e incomparabile contesto, il fenomeno di una eversione reazionaria con tinte non più nazionaliste ma razziste, sembra volersi ripresentare in forme grottesche, ma anche preoccupanti.
Nel Mezzogiorno il campo è la Puglia, la regione dove più avanzato è lo sviluppo del movimento proletario e dove emergono figure di capi, in grado di organizzare, di dirigere: tra esse di maggiore spicco, per la sua intelligenza, per le sue qualità di trascinatore, per la sua carica di umanità, è quella di Di Vagno. Per i fascisti egli non è un avversario politico, è un nemico da stroncare, il sentimento che diffondono contro di lui è quello dell'odio. Nella sua Conversano gli fanno il vuoto intorno con la minaccia, col ricatto, con la violenza, creano un clima di terrore. Nonostante questo viene eletto deputato.
Sfugge a due attentati, il terzo va a buon fine. Si noleggiano due "Chars à bancs", due diligenze che si usavano per i brevi viaggi e per le gite campestri, e vi si caricano i giovani fascisti di buona famiglia che non perdonano il transfuga di classe, il "borghese" che ha fatto propria la causa dei contadini, degli "umiliati e offesi". Lo colpiscono non in uno scontro, ma sparandogli quattro colpi nella schiena, mentre a breve distanza esplode una bomba a coprire la fuga dei sicari. A casa lo attendevano la moglie e un figlio ancora non nato.
La commozione e il cordoglio percorrono l'intero paese, prendono il lutto i proletari pugliesi e a loro dà voce il giovane Giuseppe Di Vittorio che gli dedica a Locorotondo una lapide, due volte infranta e due volte tornata al suo posto. Una lapide fu murata a Conversano. Il testo dettato da Filippo Turati denunciava " il medieval furore", ma questa volta sbagliava: non era un ritorno al medioevo, era la"modernizzazione" della lotta di classe quale era concepita e attuata dai Farinacci e dai Balbo, dai Caradonna e dai Dumini.
L'assassinio trova eco alla Camera, ma non si coglie la novità oltre alla estrema gravità del fatto che per la prima volta nella storia d'Italia un deputato è ucciso per le idee che professa. Non ne coglie il significato neanche il suo partito, esposto al fuoco della polemica comunista e lacerato all'interno dalle lotte di corrente.
La magistratura dell'Italia liberale condanna a pene relativamente miti alcuni degli assassini e dei loro complici ma esclude la premeditazione, Gli "chars à bancs" erano serviti per una scampagnata, per caso conclusa con un morto. Anche Matteotti finì sul pugnale per essersi troppo divincolato nel chiuso di un'automobile. Il tribunale esclude la premeditazione. Degli imputati dodici vengono assolti per non aver commesso il fatto, i dieci condannati verranno scarcerati un anno dopo per amnistia e tutti festeggeranno l'evento, concludendo il festeggiamento con una manifestazione davanti alla casa di Di Vagno al grido di "viva il 25 settembre", la data dell'assassinio. Nessuno di loro, secondo i giudici, aveva premeditato il delitto. Il processo verrà riaperto dopo la caduta del fascismo e procede tra mille cavilli procedurali, viene trasferito per legittima suspicione da Bari a Potenza. Le condanne, relativamente miti rispetto alla efferatezza del crimine, questa volta ci sono, ma i giudici dell'Italia liberata, senza l'attenuante del ricatto e della minaccia, stabiliscono anch'essi che non ci fu premeditazione: non era stato un atto freddamente organizzato e spietatamente eseguito, ma un episodio di lotta politica paesana, finito purtroppo tragicamente: un processo "a metà" commenterà l'Avanti, concluso con una sentenza "a metà"[...]