Dalla parte giusta. C’erano anche tedeschi brava gente
di Simonetta Fiore
Furono diecimila i soldati della Wermacht in Italia a gettare la divisa e spesso a unirsi ai partigiani. Ora gli storici li studiano
Partigiani tedeschi della brigata Garibaldi (a sinistra Heinz Brauwers, a destra il suo amico Hans Juergens)
Dopo ottant’anni escono fuori dal silenzio in cui erano stati seppelliti. Si chiamano Rudolf, Gerhard, Jakob, ma nei borghi dove è ancora viva la memoria partigiana sono evocati con i nomi più famigliari di Rodolfo, Gerardo, Giacomo. Nelle fotografie di gruppo colpiscono per i lineamenti affilati e il colore chiaro della pelle. Dimenticati dalla storia, furono capaci di un gesto inimmaginabile, in un punto cieco dell’esistenza stretto tra due alternative spietate: se continuare a vestire i panni dei carnefici o mettere a rischio la propria vita e soprattutto quella dei loro famigliari rimasti in Germania, esposti alle ritorsioni più orrende. Mandati a combattere in Italia, nel pieno della guerra civile, scelsero di togliersi la divisa di Hitler per passare dalla parte giusta della storia.
Sono circa diecimila i soldati della Wehrmacht che, sul fronte italiano, preferirono abbandonare il loro esercito nazionale. Non tutti lo fecero per un atto di opposizione antinazista, piuttosto mossi da rabbia e disillusione, dalla “stanchezza di guerra”, dalla paura di punizioni feroci in caso di défaillance o perché informati delle proprie case in macerie sotto i bombardamenti alleati. Ma una componente eroica di questi dimenticati – ed è la storia che più ci interessa - disertò sulla spinta di una ribellione morale e civile, fino a traslocare nel campo avverso del partigianato. Alcuni morirono nel fuoco dell’azione militare, altri furono impiccati o fucilati dagli ex commilitoni.
Una volta rientrati in patria, i sopravvissuti fecero fatica a raccontare la loro Resistenza. Per la Germania occidentale, e anche per quella comunista, rimasero a lungo dei traditori, persone sgradite, reietti dalla comunità nazionale per un malinteso senso dell’onore. Mentre da noi, nell’Italia postbellica edificata sul mito degli “italiani brava gente”, quello che attribuiva l’esclusività della colpa alla Germania hitleriana, non c’era posto per i tedeschi buoni. E nonostante le domande, i dubbi e le ricerche avviate da Roberto Battaglia, Nuto Revelli e Claudio Pavone – tutti studiosi provenienti dalle file della Resistenza – ci sono voluti svariati decenni perché le loro storie venissero raccolte in modo sistematico e approfondito.
Partigiani della Wehrmacht, curato da Mirco Carrattieri e Iara Meloni, è il volume che più dà conto di una ricerca collettiva maturata dentro la rete degli istituti storici della Resistenza, ad opera di una nuova leva di storici che lavora sulle memorie locali (edizioni le Piccole pagine). Dietro la ricostruzione di diserzioni collettive – e delle disobbedienze individuali di chi non volle uccidere i civili né dar fuoco ai villaggi - c’è l’operosità minuta dei volontari della memoria, di piccole comunità che hanno coltivato il ricordo attraverso la manutenzione di steli, lapidi, iscrizioni funerarie. Esemplare è il caso di Jakob Hoch, un caporale renano che abbandonò la svastica anche per amore d’una ragazza incontrata nell’Appennino piacentino. Colpito a morte dai suoi ex commilitoni, circondato da un’aura di eroismo - «fu lui a spararsi l’ultimo proiettile», disse il suo comandante partigiano - sarà seppellito nel dopoguerra tra i resistenti di Gropparello. E sua figlia neonata, abbandonata misteriosamente dalla mamma, fu subito adottata dal paese in cui avrebbe vissuto fino all’età adulta.
Ogni biografia nasconde un romanzo, come quella del capitano della Kriegsmarine Rudolf Jacobs, morto nelle colline di Sarzana. È la sua storia a ispirare Il buon tedesco di Carlo Greppi (Laterza), il secondo volume che con notevole sforzo narrativo contribuisce a gettar luce su questo piccolo esercito di senza patria e senza bandiera. Nel settembre del 1944, sul greto del torrente Calcandola, una vigorosa e prolungata stretta di mano scioglie ogni pregiudizio: tra il trentenne Rudolf, figlio dell’alta borghesia di Brema, e il comandante garibaldino Federico fu subito istintiva simpatia.
Già esposta al rischio mortale della ritorsione tedesca, la scelta dei disertori veniva accolta con legittima diffidenza dai nuovi compagni di lotta, segnati dall’odio antitedesco. Nel caso di “Rodolfo”, la sua fama di “giusto” s’era già diffusa nella popolazione civile, da lui difesa in più occasioni dall’affarismo dei maggiorenti fascisti. La sera del 3 novembre, a due mesi esatti dall’abbraccio con il partigiano comunista, Jacobs viene ammesso all’assalto della caserma delle Brigate nere di Sarzana. All’ultimo momento la pistola gli si inceppa e il giovane capitano resta a terra crivellato di colpi. Scossi per la perdita di quel cavaliere senza paura, i compagni ne avrebbero coltivato ostinatamente la memoria, mentre in Germania fin sul finire del Novecento il suo nome resterà marchiato dall’etichetta di disertore.
L’ostilità con cui vennero accolti in patria scoraggiò in molti la testimonianza del proprio vissuto partigiano. Hans “Alvaro” Brauwers seppe del padre Heinz da alcuni documenti ritrovati nel cassetto solo dopo la sua morte. Quel nome singolare con cui il genitore aveva tentato di iscriverlo all’anagrafe della Bassa Renania era dovuto al comandante Alvaro della brigata piemontese scelta nel 1944 dal giovane poliziotto. Disgustato dagli ordini impartiti al suo reparto – SS-Polizei-Regiment-15, uno dei più feroci nella lotta alle bande - il ventisettenne Heinz decise a Torino di unirsi alle formazioni partigiane. Nel dopoguerra farà domanda per essere reintegrato nella polizia locale. Reticente sulla sua esperienza italiana, considerava ciascun tedesco responsabile della tragedia del nazismo. E fino alla fine della sua esistenza si sarebbe rifiutato di guardare film di guerra, forse scosso da troppi fantasmi. Qualcuno riuscì a sublimare nell’arte e nella letteratura la tormentata scelta della diserzione. I disegni partigiani di Walter Fischer, prima suddito del Terzo Reich poi campione dell’ortodossia della Ddr, restituiscono gli affanni di quel passaggio esistenziale.
Mentre la sospetta impostura di Alfred Andersch, il fondatore del Gruppo 47 che aveva romanzato il suo trasferimento nell’esercito alleato in un’autobiografia assolutoria, rivela tutta l’opacità d’un territorio nel quale la mancanza di documenti scritti cancella confini certi tra verità e finzione. Sono eroi o più semplicemente opportunisti quei soldati che abbandonarono la Wehrmacht a due passi dalla disfatta? Nel caso di Andersch, la risposta resta sospesa tra storia e letteratura, in una lettura tutta politica da parte dello scrittore che in nome della sua rinuncia alla bandiera nazista rivendicò l’innocenza di un’intera generazione.
Nessuna ombra può appannare una delle figure più luminose di questa galleria, Heinz Riedt, un giovane intellettuale di Berlino che dal settembre del 1943 all’aprile del ’45 procurò alla brigata giellista Silvio Trentin informazioni preziose acquisite in qualità di interprete del comando delle SS di Padova. Il caso volle che proprio a Riedt, che aveva già lavorato in un campo di prigionia tedesco, sarebbe stata affidata nel 1959 la traduzione di Se questo è un uomo. A un Primo Levi molto diffidente, ai limiti dell’insolenza, si limitò a rispondere di essere “un tedesco anomalo”, che sotto la guerra s’era sentito «più italiano che patriota, partigiano e non nazista». Fu proprio la traduzione di Ist das ein Mensch? a dargli la legittimità culturale fino a quel momento negata al “traditore”. E questo suo farsi carico delle parole altrui – parole violente quelle delle SS, parole cariche di umanità e dolore quelle di Levi – gli conferiscono nel bel ritratto di Martina Mengoni la veste di traghettatore tra una sponda e l’altra di mondi non comunicanti e talvolta inconciliabili.
Non tutti tedeschi furono nemici: questo è in fondo il senso civile delle ricerche rese pubbliche in questi mesi. E dar loro finalmente un volto e una voce serve a costruire una nuova memoria europea oltre gli stereotipi nazionali e gli strappi del passato. Operazione necessaria in un continente dove tornano minacciosi in piazza i simboli aggiornati della svastica contro gli ebrei, gli omossessuali e lo spirito più autentico della democrazia europea.
La Repubblica 20 novembre 2021