Verso il 25 aprile
di Amedeo Osti Guerrazzi
storico
L’incontro tra Benito Mussolini e un milite adolescente della Repubblica sociale italiana nel 1944
FOTO WIKIPEDIA
Tra il settembre del 1943 e l’inizio di maggio 1945, centinaia di migliaia di italiani combatterono agli ordini di Mussolini una feroce guerra civile, causando migliaia di morti tra comuni cittadini e partigiani, e collaborando all’arresto e alla deportazione di antifascisti, renitenti alla leva, operai, ebrei e qualunque altra categoria di persone che si opponesse o non rientrasse nei canoni della “legalità” del nuovo stato fascista. Non furono pochi, inoltre, i fascisti che pagarono con la vita questa loro ostinazione nel voler difendere un regime, e un uomo, chiaramente destinati alla sconfitta.
La nascita della Rsi
La memoria di quest’ultima fase del fascismo ha spaccato la società italiana, che ancora oggi è profondamente divisa sul giudizio da dare alle ultime camicie nere. La repubblica creata da Mussolini nel settembre 1943 (la Repubblica sociale italiana, Rsi), fu, come dicono i neofascisti, una «repubblica necessaria»? Fu cioè uno “scudo” per limitare l’ira dei nazisti sdegnati dal “tradimento” dell’armistizio? Fu un ultimo tentativo di salvare l’“onore” del paese ferito, anch’esso, dal cambiamento di fronte dell’Italia monarchica guidata dal maresciallo Pietro Badoglio, come vogliono molti nostalgici del ventennio fascista? Oppure fu soltanto una marionetta nelle mani dei nazisti, un ultimo conato di pochi disperati
condannati dalla società italiana e dalla storia, secondo l’interpretazione degli antifascisti? L’8 settembre, come è noto, venne reso noto l’armistizio, i tedeschi invasero il paese e Mussolini, liberato poche ore dopo dai nazisti, venne rimesso al potere da Hitler. La rinascita del fascismo fu assolutamente caotica. Nell’autunno del 1943 il governo della Rsi esisteva solo sulla carta. Nelle città, invece, i fascisti erano tornati al potere, grazie all’aiuto tedesco, riaprendo le sedi e formando corpi armati autonomi. Solo il 14 novembre il partito (che aveva preso il nome di Partito fascista repubblicano, Pfr) si riunì a Verona, per la sua prima assemblea nazionale. Dopo una confusa discussione, venne approvata una “Carta”, in quattordici punti, basata su un confuso programma “sociale” (da qui il nome della Repubblica), e sull’antisemitismo.
La guerra civile
L’assemblea veronese venne interrotta dall’annuncio della morte di Igino Ghisellini, segretario federale del partito a Ferrara, i cui responsabili non furono mai trovati. La reazione dei fascisti fu immediata e brutale. Undici persone, il 15 novembre, furono fucilate e i cadaveri esposti davanti al Castello Estense. La strage di Ferrara, pur non essendo la prima, viene comunemente indicata dagli storici come l’inizio della guerra civile. La violenza indiscriminata contro degli innocenti, l’inserimento nella lista delle vittime di due ebrei scelti in quanto tali, l’esposizione dei cadaveri, sono gli elementi che si ritroveranno in tutta la storia della Repubblica sociale italiana. Già dai primi passi, dunque, la Rsi è contrassegnata dalla violenza e dall’odio. Odio nei confronti dei “traditori”, cioè tutti coloro che si rifiutavano di seguire il fascismo, che le camicie nere identificavano con la patria. Già dal primo discorso tenuto a Monaco di Baviera subito dopo la sua liberazione, Mussolini aveva parlato di vendetta e di ritorno al combattimento. Ma vendetta contro chi? E contro chi combattere?
Bande, legioni e polizie
Il caos delle prime settimane aveva portato alla ricostituzione delle federazioni, alla cui testa si erano posti personaggi di secondo o terzo piano del passato regime, ex squadristi che, finita la guerra civile del 1921-1922, non avevano avuto quel ruolo e quel riconoscimento che ritenevano spettasse loro di diritto, oppure criminali comuni ed ex spie della polizia politica fascista. Gente dal passato violento e spesso burrascoso, che adesso trovavano nella neonata repubblica l’occasione per carpire un po’ di potere e, soprattutto, sfogare la rabbia e la frustrazione accumulate in vent’anni. A questi improvvisati dirigenti si unirono ragazzi, a volte giovanissimi, imbottiti di ideologia, nati e cresciuti all’ombra del fascio littorio e impazienti di “fare qualcosa” per la patria in pericolo. Fu questa la base di massa del fascismo repubblicano, che andò a riempire i ranghi delle innumerevoli “bande”, “legioni” e “polizie federali” più o meno improvvisate che scatenarono la guerra civile. Alcuni di loro, addirittura, si arruolarono nelle Ss, andando a formare una Brigata italiana del “corpo nero”.
La renitenza alla leva
Il ministro della Difesa, il maresciallo Rodolfo Graziani, il generale fascista che aveva commesso alcuni tra i più atroci crimini di guerra dell’Italia fascista in Africa, tentò vanamente di organizzare un esercito “apolitico” che tornasse a combattere al fronte contro gli angloamericani. I risultati furono deludenti. Le prime reclute furono racimolate tra i soldati internati dai tedeschi l’otto settembre. Poi, una serie di bandi di leva avrebbero dovuto riportare gli italiani al combattimento, ma la risposta a essi fu inequivocabile. Il tasso di renitenza, e poi di diserzione, fu altissimo. Graziani fu in grado di organizzare appena quattro divisioni di fanteria, raccogliticce e male armate che, a parte poche centinaia di uomini, non affrontarono gli Alleati sulla linea Gotica, ma vennero impiegate contro i partigiani. Anche i tentativi di ottenere un minimo di consenso da parte della classe lavoratrice, attraverso i progetti di “socializzazione” delle fabbriche, secondo i dettami della Carta di Verona, si rivelarono un fallimento. Gli operai, dopo venti anni di feroce dittatura di classe, non ne volevano più sapere né di Mussolini né del suo fascismo “sociale”. I grandi scioperi del marzo 1944 dimostrarono, al di là di ogni dubbio, da che parte stavano gli operai. Il rifiuto da parte dei lavoratori di seguire i progetti sociali del fascismo, la renitenza endemica alla leva, la Resistenza partigiana, furono tutti elementi che dimostrarono ai fascisti che gli “italiani”, in generale, non erano più degni del fascismo. Il risultato fu, a partire dall’estate del 1944, l’inasprimento della violenza fascista. Le operazioni contro i partigiani diventarono sempre più violente, le stragi contro i civili sempre più frequenti, le deportazioni di antifascisti, lavoratori ed ebrei sempre più numerose.
Guerra contro il popolo
In breve, la guerra civile non fu, come scritto da autorevoli storici, un fatto limitato ai partigiani e ai fascisti, ma coinvolse (volente o nolente) l’intera popolazione italiana, considerata dalle camicie nere come “traditrice” e indegna di far parte del “Nuovo ordine europeo”, sognato da Hitler e appoggiato da Mussolini. Non si trattava quindi di “patriottismo”, ma di una “guerra tra l’Europa”, cioè i fascisti e i nazisti, e “l’Antieuropa slava, bolscevica, giudea e anglosassone”. La fine ingloriosa del duce, fucilato a Giulino di Mezzegra il 28 aprile 1945, dopo essere stato scoperto e arrestato sulla via della fuga in Svizzera, concluse nel sangue una storia che del sangue aveva fatto la sua caratteristica principale. La Rsi non fu, e non volle mai essere, uno “scudo” nei confronti della vendetta tedesca, non portò mai gli italiani a riscattare l’onore militare violato dall’armistizio, fu il tentativo di un regime moribondo di mantenere il proprio potere, attraverso una violenza selvaggia le cui conseguenze non sono ancora del tutto estinte. L’eredità avvelenata della Repubblica sociale e del neofascismo ha segnato le violenze del dopoguerra, giungendo all’apice con la “stagione delle stragi” (si pensi a piazza della Loggia o piazza Fontana), e con la strage di Bologna. L’odio verso la democrazia ha continuato a nutrire il neofascismo che ha continuato, come unica strategia, quella di colpire gli italiani.
Domani 17 aprile 2022