Chi mistifica la storia insulta anche mio padre e gli alpini mandati a morire
di Marco Revelli
Equiparare il prima e il dopo 8 settembre è un’offesa alla memoria. E i giudici ricordino che le braccia tese non sono episodi innocenti
Archivio Nuto Revelli
"Per l'Italia sempre…, prima e dopo l'8 settembre 1943”. Questo titolo del calendario dell'esercito 2024, "fortemente voluto” dalla sottosegretaria Isabella Rauti, è un insulto alla storia. Ignora che quella data ha spaccato la vicenda nazionale in due parti tra loro contrapposte. Quel giorno, quando l'esercito italiano si sciolse con vergogna, rappresentò il punto di arrivo della rovinosa caduta del nostro Paese provocata dal fascismo e dalle sue guerre d'aggressione: la morte di quella Patria che il Regime avrebbe voluto esaltare e che invece distrusse.
E insieme rappresentò l'inizio della rinascita per opera di quei volontari della libertà, i partigiani appunto, che ci riscattarono da quella catastrofica caduta aprendo la via a un'altra Italia. Un prima e un dopo: un prima di violenza e sopraffazione, accanto a un alleato ignobile e criminale, all'insegna della "guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli” come recita la costituzione per ripudiarla. Un dopo di lotta per la libertà perduta, nella speranza che non ci fossero mai più guerre. Ignorarlo significa fare un'operazione di mistificazione storica e di propaganda politica da parte di chi a quel riscatto si è sempre opposto, prima con le armi, poi con la retorica nostalgica.
Ma quella copertina di un calendario che verrà esposto in tutte le caserme italiane, è un insulto anche per tutte quelle centinaia di migliaia di giovani che in quelle guerre sciagurate furono mandati a morire, trattati come carne da macello, da una classe di governo cinica, indifferente alle sofferenze del proprio popolo, ubriaca di parole d'ordine nazionalistiche e patriottarde.
E' un insulto per gli alpini lasciati crepare nella steppa gelata russa durante la ritirata del gennaio del '43, per quelli affondati nel fango della Grecia e dell'Albania, per i caduti negli scontri impari dell'africa settentrionale. Mio padre raccon- tava, con sofferenza, come nella notte che precedette la terribile battaglia di Nikolajewka, nei 40 gradi sotto zero, in quella che chiamava "la notte dei pazzi”, avesse "capito tutto”. Avesse capito cosa era il fascismo, cosa era la monarchia, cosa era l'esercito, cosa era, vista da quel fondo dell'inferno, la Patria. E lui, ufficiale in servizio permanente effettivo, uscito come allievo scelto dall'accademia di Modena, considerato un soldato modello, insignito della medaglia d'argento al valore, lui – raccontava – aveva "maledetto il Duce, maledetto il Re, maledetto l'Esercito, maledetto … [qui faceva una breve pausa] … la Patria”. La Patria che aveva abbandonato quei contadini costretti a diventare soldati in quell'inferno gelato, mal preparati, mal equipaggiati, mal comandati, ignorati da Roma, dove i gerarchi imboscati si arricchivano con le tangenti generosamente pagate dai mercanti di cannoni.
L'8 settembre mio padre, dopo aver invano implorato gli ufficiali superiori delle caserme di Cuneo a resistere ai tedeschi, aveva preso i due parabellum e la pistolmachine che si era portato dal fronte russo, ed era salito in montagna a combattere per una nuova patria. Queste storie dovrebbero comparire nei calendari militari, un po' più autentiche, un po' meno grondanti di retorica fuori tempo. Anche a ricordarci che quei saluti romani in camicia nera che emergono qua e là dal fondo fangoso della nostra storia, non sono episodi estemporanei e innocenti come sembrano pensare i nostri giudici di Cassazione. Inneggiano a un passato di sangue e dolore. E sono un oltraggio al senso civile di ognuno.
La Stampa, 19 gennaio 2024