Sottoculturali tanto beati e incoscienti
di Andrea Romano
Quel che invece è notevole di questo suo libro ( L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip, Einaudi, pagine 146, 16,50) è il modo con il quale si traccia un filo di continuità tutto politico tra la «rivoluzione televisiva» degli anni Ottanta e le forme a noi contemporanee di reality, talk show e gossip. Un processo il cui snodo fondamentale è la scomparsa della pedagogia, sostituita da una rappresentazione non più colpevolizzante dei desideri degli italiani così come essi sono realmente. Se pensiamo alla politica, ci viene in mente qualcosa di analogo? Il berlusconismo, naturalmente. Che ha rivoluzionato la nostra politica, tra l’altro, attraverso un unico imperativo rivolto agli italiani: «Guardatevi allo specchio ed esultate. Perché siete finalmente autorizzati a piacervi così come siete»
Forse Massimiliano Panarari non lo sa, ma quello che ha scritto è un libro di sfrenata esaltazione del berlusconismo. Non già del berlusconismo politico, quello che ci è stato dato in sorte dall’ultimo quindicennio di storia nazionale in varie incarnazioni: la versione liberista delle origini ormai lontane, quella più ecumenica degli anni del rimbalzo, o quella di puro galleggiamento degli ultimi tempi. No, il berlusconismo che si celebra (inconsapevolmente?) in queste pagine è quello primigenio. Il brodo primordiale della grande mutazione italiana poi incarnata dal Berlusconi politico. O, come forse direbbe Nichi Vendola, il nido nel quale è stato covato l’uovo del serpente.
Di cosa parliamo? Della trasformazione che dagli anni Ottanta ha intrecciato la politica e la produzione televisiva in forme del tutto nuove. Perché se nei decenni precedenti tv e politica si erano naturalmente parlate e reciprocamente utilizzate, è solo dagli anni Ottanta che la politica scopre la scala del tutto inedita assunta dalla dimensione tele-popolare. Con effetti importanti prima di tutto sulla politica, come ci hanno raccontato numerosi studi e come tra gli altri hanno sintetizzato Gianpietro Mazzoleni e Anna Sfardini in un brillante volume di qualche mese fa: «La popolarizzazione della cultura mediale riguarda in modo cospicuo anche i contenuti della comunicazione e dell’informazione politica, che diventano, alla pari di altri prodotti, oggetto di largo consumo e come tali rispondono alla logica delle industrie mediali e della produzione di cultura popolare». Con il risultato di produrre una «mediatizzazione della politica, macrofenomeno che agisce come vero e proprio agente mutogeno per la politica come è vissuta dai suoi attori e come viene rappresentata davanti al pubblico degli elettori e dei cittadini» ( Politica pop. Da Porta a Porta a L’Isola dei Famosi, il Mulino 2009, pagine 182),
Il «macrofenomeno» descritto da Mazzoleni e Sfardini può piacere o non piacere, ma è esattamente il mondo nel quale siamo tutti immersi da trent’anni a questa parte. A Panarari non piace, ma per il momento non è questo che interessa. Quel che invece è notevole di questo suo libro ( L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip, Einaudi, pagine 146, 16,50) è il modo con il quale si traccia un filo di continuità tutto politico tra la «rivoluzione televisiva» degli anni Ottanta e le forme a noi contemporanee di reality, talk show e gossip. Tra quel tempo e il nostro, spiega Panarari, il «rinnovato immaginario popolare» è stato raccontato dalla televisione in forme che già contenevano in sé la grande traccia di un disegno politico. Ovvero in forme finalmente corrispondenti alla realtà italiana così come essa si rappresenta, e non come dovrebbe diventare secondo un qualunque progetto pedagogico. Guardando ad esempio a Drive In, uno dei programmi-simbolo degli anni Ottanta, Panarari spiega che si trattava di «una trasmissione esemplarmente individualistica, tra il piacere solitario di guardare ragazze maggiorate strette in abitini che scoppiavano e la voglia di ridere sguaiatamente, senza sentirsi in colpa». E dunque «stop a sensi di colpa superflui», scrive ancora Panarari, «il Super-Ego è mio e me lo gestisco io, e via libera alla visione di qualunque prodotto televisivo mi aggradi». Così come qualche anno dopo, passando per Non è la Rai e approdando a prodotti dei nostri giorni come Amici e le varie isole del «neorealitismo», si ha a che fare con «programmi vessillo della neo-Italia coatta (che) pullulano di mugugni, ahò, grugniti, tutti pronunciati indistintamente in maniera molto assertiva, quando non addirittura solenne, in barba agli antiquati e pedanti precetti dell’Accademia della Crusca». Una televisione, in conclusione, che «conferma pervicacemente e senza sensi di colpa di non intrattenere alcun grado di parentela, neppure alla lontana, con l’idea sorpassatissima della pedagogia di massa».
Quello che Panarari racconta è un processo di profonda democratizzazione della comunicazione televisiva italiana, lo stesso al quale Mazzoleni e Sfardini attribuiscono l’etichetta più scientifica di «popolarizzazione della cultura mediale». Un processo il cui snodo fondamentale è la scomparsa della pedagogia, sostituita da una rappresentazione non più colpevolizzante dei desideri degli italiani così come essi sono realmente. Se pensiamo alla politica, ci viene in mente qualcosa di analogo? Il berlusconismo, naturalmente. Che ha rivoluzionato la nostra politica, tra l’altro, attraverso un unico imperativo rivolto agli italiani: «Guardatevi allo specchio ed esultate. Perché siete finalmente autorizzati a piacervi così come siete». Più di ogni suo altro travestimento ideologico liberista o arci-italiano, e al netto della vicenda personale del suo leader carismatico, il berlusconismo è stato soprattutto un messaggio di esaltazione anti-pedagogica della natura degli italiani. Che aveva in sé, al contempo, un potenziale di emancipazione degli spiriti animali della nazione e uno di conservazione dei suoi equilibri storici. Un potenziale che è rimasto tale, per l’appunto, senza mai tradursi in un’opera di governo adeguata alle intenzioni di partenza e senza lasciare alcuna eredità propriamente politica in grado di sopravvivere al suo fondatore. Ma che nondimeno ha modificato una volta per tutte il campo del confronto pubblico, rendendo obsoleta qualunque politica che insista sui tasti della pedagogia e del «dover essere».
Tutto questo ha avuto la sua premessa nella grande trasformazione populista e democratica della comunicazione televisiva, che Panarari racconta con acume. Salvo condire la sua analisi con una sovrabbondanza di giudizi morali che rischiano di sommergere il lettore, suonando giustapposti quasi artificialmente a uno sguardo analitico ben più lucido. Tra un «colpo di Stato plutocratico e neoliberale» ordito nel corso degli anni Ottanta (da chi?), un «episteme popolare cambiato drammaticamente in peggio» (signora mia, che noia queste veline) e l’auspicio che «intellettuali onesti» si dedichino finalmente a «inventare architetture simboliche alternative a quelle vittoriose» (astenersi perditempo), si largheggia nell’uso di una categoria come «egemonia culturale» che se pure ha avuto larghissima fortuna giornalistica potrebbe essere serenamente consegnata agli archivi della nostra memoria. Per concentrarsi con più soddisfazione nel racconto dei linguaggi e dei desideri di un’Italia dove le mitiche "masse" non sono più, per nostra comune fortuna, quelle di Antonio Gramsci e del suo tempo.
Il Sole 24 Ore, Domenica 25 luglio 2010