I trentatré lavoratori sanno che per sopravvivere devono «compartir»: condividere. Solo così rivedranno la luce. Gli operai intrappolati in Cile mandano un video in superficie
di Erri De Luca
SANTIAGO — Hanno cantato l’inno nazionale cileno, hanno assicurato: «Qui ci siamo organizzati bene». E grazie a una piccola telecamera inviata a 700 metri di profondità, i 33 prigionieri della miniera franata a San José ieri hanno inviato all’esterno un vero video di 45 minuti, poi trasmesso in parte dalla tv nazionale. Gli spazi riservati per mangiare, pregare, lavarsi, perfino per giocare a domino. E’ dal 5 agosto che sono intrappolati sottoterra, in un rifugio di sicurezza. Fino a domenica scorsa li si dava per morti. Poi la scoperta che avevano resistito, i soccorsi (cibo, acqua, farmaci) fatti passare da stretti condotti. Le comunicazioni con le famiglie. Per fare uscire loro, i minatori, ci vorrà però molto tempo: forse quattro mesi.
Scendono sotto terra nel labirinto di gallerie a volte scavate come tane. Vanno a estrarre le materie prime che si trasformeranno in merce per l'industria. Risalgono a fine turno con occhi assetati di aria e di luce. Incalcolabile il numero delle loro vite non più risalite in superficie. Nelle miniere di carbone in Cina le stragi vanno a ritmo di stagioni.
Nel secolo delle grandi migrazioni molti di noi italiani hanno prestato vita e forza ai giacimenti prossimi all'inferno. Le miniere del Belgio nel dopoguerra: i treni salivano al confine, gremiti di nostri, mezzo deportati. Già: i contratti imponevano il sequestro dei passaporti, l'obbligo di lavoro e residenza per diversi anni. Uomini nostri, contadini di terre schiacciate sotto il peso del sole, andavano a infilarsi nei cunicoli bui del lavoro d'azzardo. Se esiste un sacrificio maggiore, per un salario, lo imparo volentieri. Ottenevano in cambio una moneta più forte della debole lira. Il sud resisteva all’isolamento con le rimesse dell' emigrazione. In compenso chi di soldi ne aveva li spediva di soppiatto all'estero. Era questa la bilancia dei pagamenti dell'Italia di allora.
Oggi la precisione di una telecamera in fondo a un cavo permette di raggiungere una delle tante trappole scattate addosso ai minatori. Trentatré uomini di età diverse si sono rifugiati in una stanza a settecento metri di profondità. Sono riforniti di aria, acqua, alimenti, ma devono restarci a lungo, addirittura mesi. Stanno dentro una stiva, un viaggio fermo che li accomuna a equipaggi sospesi. Chiusi in una capsula spaziale altri uomini hanno trascorso mesi a galleggi are , di menticando il peso. Non i trentatré: non sono astronauti alla rovescia i minatori insaccati all'antipodo sud. Sono uomini usciti per un salario ancora prima di giorno. Hanno guardato le stelle col sospiro di sollievo di non dovere estrarre pure quelle dal soffitto della galleria. Sono andati al lavoro col fagotto cucinato, da riportare a sera. Devono invece inventare una sopravvivenza, suddividendosi spazio, sonno, gabinetto, in parti uguali. Nell'emergenza la specie umana sa benissimo il da farsi e come. Sa condividere: in lingua ispanica è altrettanto bello il verbo: compartir.
Non ho affrontato la loro condizione estrema, conosco altre convivenze forzate tra operai lontani dalle case. Ho conosciuto la necessità efficace dell'altruismo, del darsi spalla e sostegno. So che gli uomini costretti sottoterra resteranno uniti. La loro condizione è opposta a quella delle isole esotiche dove il concorrente deve prevalere a danno altrui. Quelli sono giochetti, invece sottoterra la vita fa sul serio, è una moneta e sull'altra faccia non c'è la nomination ma la morte. Nell'accampamento sulla spiaggia domina l'isteria di far emergere la propria personalità, nel disagio simulato per contratto. Nella camera di scampo della miniera cilena il compito non è vincere il primo premio, ma arrivare insieme al traguardo della superficie. Resteranno uniti perché così è andata avanti la resistenza e il progresso della forza lavoro. Usciranno insieme all’aria aperta.
Corriere della Sera 28 ago 2010