La speranza è finita, è l’ora della volontà

di JOSE' SARAMAGO

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In un clamore di forsennati sbraitanti, ognuna è pronunciata affinché non se ne oda un’altra: l’ultimo scritto del Nobel, poco prima di morire

In Portogallo si è fatto un grande abuso delle maiuscole. Nei discorsi politici, nel giornalismo, nei rituali delle inaugurazioni fervono gli Ideali, l'Umanità, la Patria e la Famiglia, il Dovere, le Scoperte; tutto ciò con frasi forbite e pompose, tanto più risonanti quanto più vacue.

Portano, quelle frasi, tutti gli ingredienti della tiritera dei raduni o dei discorsi parlamentari. E nella bocca dei professionisti della parola si unisce l'ausilio delle vibrazioni convenienti, che vanno dal tremolio pietoso allo stridore della fanfara. È un regalo per l'orecchio tanta maestria di orchestrazione. E uno squallore per l'intelligenza.

Adesso, nel circuito delle idee, è apparsa la parola speranza seguita subito dopo dalla tentazione di gonfiare la lettera iniziale mutando la s in S. È una operazione che ha a che vedere con la magia, così come è stato detto che alla magia appartenevano i graffiti preistorici delle caverne. Mettendovi la lettera grande, è come se si legasse meglio la comune speranza ai nostri buoni desideri. Si prendono lucciole per lanterne, il progetto per lavoro, il sogno per realtà. E, poiché tutto questo deve essere già accaduto a Newton, sediamoci pure sotto un melo in attesa che ci cada una mela sulla testa perché ci sia rivelata, finalmente, la nostra legge di gravità.

Come si vede, si tratta di una lezione per gente indolente, che ancora crede nella scienza infusa. Ora, da questo mio lato poco incline alle illusioni, scoprii che la retorica non è degna compagnia per gente che vuole pensare in modo serio e con il proprio cervello. Non vi è dubbio che nessuno (proprio nessuno) può gloriarsi di pensare unicamente con la propria testa. Con tante teste al mondo, e tutte pensanti, come non ricevere da loro materiale per il nostro pensiero? Per dirla meglio: il male di coloro che pensano con maiuscole è che quelle maiuscole occupino troppo spazio: mezza dozzina di esse intorpidiscono e intasano del tutto o per sempre qualsiasi cervello, anche geniale. Questo fa sì che io sia un nemico sfegatato delle maiuscole: mi piacciono (eccome!) le parole, ma vorrei renderle piccolissime, in modo che ce ne possano stare molte altre.

E vorrei anche che fossero dense, cariche di significato, di senso, di forza, di capacità di azione. Se ci mettiamo a dire e a scrivere Speranza, addio al mio monito. Cadiamo nel dondolio dell'intorpidimento, nel bagno tiepido, nelle litanie emollienti. Nel frattempo, le realtà seguiranno il loro proprio cammino, beffandosi se non servendosi di noi. E in quel caso aggiungeremo all'elenco dei nostri piagnistei un'ulteriore delusione. Poi ci siederemo sulla soglia di casa a vedere sfilare il corteo organizzato da altri facendolo passare per la nostra edificazione.
Ora, la vita è fatta di piccole e minuscole occupazioni. Una di queste è scrivere. Dal punto di vista di Sirio, neppure il viaggio dalla Terra alla Luna assume tanta importanza. Ma qui, sulla superficie terrestre, mettere una parola davanti all'altra, e in particolare in questo bugigattolo del pianeta, si rivela come operazione molto importante. Positiva o negativa che sia. Sarà positiva se ciascuna parola verrà soppesata e misurata, riconsegnata al suo vero valore – e non usata come cortina fumogena o accesso al museo di anticaglie. Sarà positiva se ridesterà in chi legge un'eco che non provenga dall'oscura condiscendenza all'illusione e all'inganno che sonnecchia sul fondo dell'inerzia in cui siamo vissuti. Sarà positiva se... E così via, senza ulteriori spiegazioni.

Dunque, questa parola speranza, con o senza maiuscola, è bene cassarla dal nostro vocabolario. Soltanto gli esuli e i profughi, rassegnati all'esilio e all'espatrio, in mancanza di meglio, la devono usare. Offre loro consolazione e conforto. I non rassegnati hanno un'altra parola più decisa: volontà. Che, per di più, può essere scritta con la maiuscola. Su ciò sarei d'accordo, se questo vi può essere d'aiuto. E ancora sulle parole potrei aggiungere quanto già dissi e scrissi in proposito in altri momenti.

Mi si offre qui l'occasione per riprendere una riflessione che più o meno recitava così: le parole sono buone. Le parole sono cattive. Le parole offendono. Le parole chiedono scusa. Le parole scottano. Le parole blandiscono. Le parole si donano, si scambiano, si offrono, si vendono e s'inventano. Le parole sono assenti. Alcune parole ci assorbono, non ci lasciano, sono come zecche: le troviamo nei libri, nei giornali, negli slogan pubblicitari, nelle sottotitolazioni, nei fogli e sui cartelloni. Le parole consigliano, suggeriscono, insinuano, ordinano, impongono, segregano, eliminano. Sono sdolcinate o pungenti. Il mondo ruota su parole lubrificate con olio di pazienza. I cervelli straripano di parole in pace e armonia con quelle loro contrarie e nemiche.

Questo è il motivo per cui la gente fa il contrario di quello che pensa, credendo di pensare quello che fa. Ci sono molte parole. E ci sono i discorsi, che sono parole accostate le une alle altre in un incerto equilibrio grazie a una sintassi precaria, fino alla chiusura finale del «Dissi» o «Ho detto». Con i discorsi si celebra, si inaugura, si aprono e si chiudono adunanze, si lanciano cortine fumogene o si collocano drappi di velluto. Sono brindisi, discorsi, discussioni e conferenze. Tramite i discorsi si trasmettono elogi, ringraziamenti, programmi e fantasie. E poi le parole dei discorsi appaiono adagiate su fogli, pitturate con inchiostro tipografico e in questo modo entrano nell'immortalità del Verbo. Accanto a José Sócrates \, il presidente dell'assemblea affigge il discorso che ha aperto il rubinetto della fonte. E le parole defluiscono, fluide come il «prezioso liquido». Fluiscono ininterrotte, inondano il pavimento, salgono alle ginocchia, arrivano alla vita, alle spalle, al collo. È il diluvio universale, un coro stonato che erompe da milioni di bocche.

La Terra prosegue il suo cammino avvolta in un clamore di forsennati sbraitanti, ululanti, avvolta anche in un docile mormorio, smorzato e conciliatore. C'è di tutto fra i coristi: tenori e tenori leggeri, bassi, soprani dal do di petto facile, baritoni imbottiti, mezzo contralti. Negli intervalli, si ode il suggeritore. E tutto ciò stordisce le stelle e perturba le comunicazioni, come le tempeste solari. Perché le parole hanno smesso di comunicare.

Ogni parola è pronunciata affinché non se ne oda un'altra. La parola, anche quando non afferma, si afferma. La parola non risponde, né domanda: ammassa. La parola è l'erba fresca e verde che copre le cime aguzze dell'invaso. La parola è polvere negli occhi e occhi bucati. La parola non rivela. La parola maschera. Per questo occorre mondare le parole affinché la semina si trasformi in raccolto. Perché le parole siano strumento di morte o di salvezza. Perché la parola valga solo ciò che vale il silenzio dell'atto.

C'è anche il silenzio. Il silenzio, per sua definizione, è ciò che non si ode. Il silenzio ascolta, analizza, osserva, pondera e valuta. Il silenzio è fecondo. Il silenzio è la terra scura e fertile, l'humus dell'essere, la muta melodia sotto la luce solare. Su di esso cadono le parole. Tutte le parole.
Parole buone e parole cattive. Il grano e la zizzania. Però solo il grano dà il pane.

 

La Stampa 7 novembre 2010