Anche Altamura Terra di Mafia
Nel mese di Febbraio alcuni ragazzi del Liceo Scientifico e Linguistico “Federico II di Svevia” di Altamura hanno partecipato ad un concorso denominato "Geografia e Legalità. Sconfiggere la mafia nella mia Regione", promosso dalla Fondazione Giovanni e Francesca Falcone in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
Per essere ammessi al concorso, gli studenti dovevano realizzare un elaborato di tipo letterario fino ad un massimo di 20 cartelle.
Bisognava svolgere una ricerca, un elaborato preferibilmente corredato di dati e circostanze reali sulle forme di criminalità organizzata presenti sul proprio territorio.
Il lavoro, sottoposto alla valutazione di un’apposita Commissione, è risultato essere uno dei migliori e tra i vincitori del concorso della fase regionale. I ragazzi con i docenti parteciperanno alla manifestazione del 23 maggio a Palermo, prendendo parte al viaggio sulla "Nave della Legalità 2013".
I ragazzi hanno risposto con entusiasmo e professionalità a quanto richiesto dal bando di concorso: relazionarsi con le “fonti” locali, presenti nel proprio territorio per acquisire dati, documenti o, più semplicemente, ispirazione per redigere gli elaborati: magistrati, forze armate, forze dell’ordine e giornalisti, o anche, la Prefettura della propria provincia.
Gli autori del "dossier" si sono avvalsi dell’aiuto e della competenza di docenti ed esperti che hanno coordinato il lavoro: il prof. Giuseppe Dambrosio (docente referente per la Legalità del Liceo Scientifico di Altamura), Alessandra Creanza (rappresentante del Coordinamento “Altamura per la Legalità”), la prof.ssa Monica Lasorella, la dott.ssa Desirèe Digeronimo (Sostituto Procuratore presso la DDA di Bari), la dott.ssa Clelia Galantino (Presidente Corte di Assise di Bari).
Vi proponiamo di seguito il testo, buona lettura.
«Un uomo fa quello che è suo dovere fare, quali che siano le conseguenze personali, quali che siano gli ostacoli, i pericoli o le pressioni. Questa è la base di tutta la moralità umana».
J. F. Kennedy
La nostra esperienza in Sicilia
Noi ragazzi del Liceo Scientifico Federico II di Svevia di Altamura per approfondire al meglio quello che definiamo “fenomeno mafioso”, abbiamo intrapreso un percorso di conoscenza frequentando nell’anno scolastico 2011-'12 un PON: “Legali al Sud”. Tra le attività più stimolanti ricordiamo un viaggio in Sicilia che è servito per renderci conto di quali fossero i luoghi in cui la mafia è nata e sviluppata. Maria Elena Bagarella, vicepresidente dell’associazione “Laboratorio della Legalità”, cugina del boss Leoluca Bagarella che imponeva la propria egemonia nelle terre circondariali di Corleone ed anche di Palermo, ci ha guidato nella visita ad alcuni centri tristemente famosi: Corleone, Cinisi, Palermo ed anche Salemi. Abbiamo appreso come questo fenomeno abbia avuto origine da semplici faide contadine nelle quali si rivendicavano dei terreni. La mafia siciliana, meglio conosciuta come “Cosa Nostra”, è nata con lo scopo di sostituirsi allo Stato, spesso assente nelle vicende siciliane. In queste piccole realtà cittadine, la malavita ha trovato campo libero per svilupparsi, in quanto unico mezzo di salvezza della classe contadina disagiata.
Ne è esempio la strage che avvenne presso Portella della Ginestra, nelle vicinanze di Piana degli Albanesi (Pa). Fu proprio in quel luogo che la mafia dimostrò la sua avversione verso quella classe contadina che andava prendendo coscienza di sé. In occasione della festa dei lavoratori nell’anno 1947, vi fu un vero e proprio agguato nei confronti di coloro che erano lì a manifestare. Fortunatamente, durante il nostro percorso laboratoriale, abbiamo potuto incontrare uno dei sopravvissuti alla strage: Mario Nicosia. Egli si è offerto di accompagnarci in quel luogo, divenuto monumento alla memoria della prima strage di mafia conosciuta nella storia. Semplici furono le sue parole ma di forte impatto. Ci ha invitato a difendere i cinque cardini della società attuale per cui lui e altri lottarono arduamente: la Repubblica, la Costituzione, la Libertà, la Scuola e il Diritto di voto alle donne. Sono questi i valori per cui si deve lottare e che occorre costantemente tenere a mente per poter sconfiggere la criminalità mafiosa. Il viaggio è stato ricco di emozioni ed esperienze. Abbiamo avuto modo di entrare nella casa sequestrata al boss Provenzano dove, ora, è allestita la sede del “Laboratorio della Legalità”, impegnato nella lotta alla mafia. Ci siamo recati a Cinisi, città natale di Peppino Impastato che si è opposto alla realtà malavitosa della sua famiglia e che ha avuto il coraggio di denunciare, apertamente e senza timore, le attività criminali di Gaetano Badalamenti, noto esponente mafioso. Spinto dal desiderio di libertà, dalla sua stazione radiofonica, Radio Aut, ha intrapreso una campagna di lotta alla mafia che lo ha portato a essere brutalmente ucciso.
La nascita del fenomeno
La conoscenza della situazione siciliana ci ha permesso di osservare con occhio maggiormente attento e critico quella che è la situazione della nostra città. Altamura conta poco meno di 70.000 abitanti e si colloca nel mezzo del Parco Nazionale dell’Alta Murgia, a confine tra la Puglia e la Basilicata. Le sue origini sono nobili ed è ricca per la sua storia e cultura: il ritrovamento dello scheletro dell’Uomo Arcaico nella Grotta di Lamalunga nel 1993, il pane DOP, la cava dei dinosauri, la Cattedrale costruita su volere di Federico II di Svevia l’hanno resa uno dei comuni più conosciuti in Italia e all’estero.
Ma Altamura si presenta con due facce di una stessa medaglia: da un lato è la città accogliente, ricca di storia e cultura, industrializzata; dall’altra ha nascosto fatti inquietanti tipici dei sistemi mafiosi e criminali. Certo, il fenomeno criminale ad Altamura non può essere paragonato a quello di capoluoghi come Palermo, Napoli o Reggio Calabria, la cui storia mafiosa ha origini molto più antiche. Ma una sua storia ce l’ha e va raccontata.
Nel suo libro “Dieci anni di mafia a Bari e nei dintorni”, il dott. Leonardo Rinella, già Procuratore Capo presso la Procura di Trani e PM alla Procura di Bari, ha scritto: “Sino ai primi anni Ottanta, Bari e la sua provincia non conoscevano il fenomeno della criminalità organizzata di stampo mafioso". Esistevano, certamente, reati riconducibili alla criminalità organizzata, limitati però al gioco d’azzardo, prostituzione e contrabbando. Il primo incontro fra la delinquenza organizzata locale e i sodalizi mafiosi, e segnatamente camorristici, avvenne quando, a seguito dello spostamento dei depositi, da parte delle ditte produttrici di sigarette, si dislocarono le rotte del contrabbando di tabacchi lavorati esteri, con conseguente emigrazione verso la Puglia delle organizzazioni napoletane del settore. Necessario fu allora coinvolgere la criminalità locale, che nel contrabbando trovava una delle più potenti ragioni organizzative. Contemporaneamente la provincia di Bari fu interessata, sia pur marginalmente, dall’arrivo di pericolosi esponenti criminali siciliani, inviati in soggiorno obbligato. Ma il canale di infiltrazione della camorra in Puglia fu essenzialmente determinato dallo sfollamento nel 1981 di un contiguo numero di detenuti campani dal carcere di Poggioreale. Affiliati al clan Cutolo, questi personaggi furono trasferiti nel carcere barese per evitare scontri fra appartenenti a clan camorristici rivali (Nuova Camorra Organizzata e Nuova Famiglia). Sicché, ben presto, da un canto imposero la loro supremazia sui detenuti pugliesi, meno scaltri e soprattutto non organizzati; dall’altro, diffusero l’adozione delle cerimonie di affiliazione, con riti sconosciuti fino a quel momento in terra di Puglia. Da quest’opera di proselitismo nei primi anni Ottanta si costituì, subordinata a Raffaele Cutolo, una prima organizzazione criminale pugliese con caratteristiche mutanti della camorra.
In questa fase assunsero un ruolo decisivo gli elementi di maggiore spicco della criminalità pugliese, fra i quali si distinsero Giuseppe Rogoli di Mesagne e tale Francesco Biancoli di Bari. Ben presto questi uomini, rafforzato il loro prestigio personale, si svincolarono dall’iniziale regime di sudditanza e imposizione che avevano nei confronti dei cutoliani e si posero nella prospettiva di consociarsi in un’unica organizzazione prettamente pugliese, con l’intento di gestire autonomamente le varie attività delittuose in questa regione. L’iniziativa trovò il suo appoggio nell’interesse dei calabresi, appartenenti all’ ’Ndrangheta, che mal vedevano un eccessivo ampliamento dell’area di dominio dei cutoliani […]”.
Nel 1987, Giuseppe Rogoli, membro di alto grado dell’’Ndrangheta, affiliato ai Bellocco (potente ‘ndrina di Rosarno) e fondatore della SCU (Sacra Corona Unita), affidò a Oronzo Romano e Giovanni Dalena la costituzione di una ‘ndrina nel sud barese, cui fu dato il nome “La Rosa”. L’organizzazione criminale operava nelle città di Acquaviva delle Fonti, Conversano, Gioia del Colle, Locorotondo, Putignano, Gravina in Puglia e Altamura. Il Tribunale di Bari, dopo aver individuato la natura mafiosa de “La Rosa”, individuò anche alcuni clan e ne identificò i responsabili: Giovanni D’Alena per la zona di Putignano, Domenico Manfredi e Pietro Coletta per la zona di Gravina in Puglia e Bartolomeo Dambrosio per la zona di Altamura.
Si legge ancora nel libro del già citato Leonardo Rinella: “[…] Un aspetto importante, necessario da rilevare, è che fino al 1996 non era mai venuta, neanche agli investigatori, l’idea che nel territorio di Altamura e Gravina in Puglia allignasse un’organizzazione di stampo mafioso particolarmente viva e operante, dedita a reati di ogni genere (dal traffico di armi e stupefacenti alle rapine ed estorsioni), che non disdegnava neanche l’uso cruento delle armi. E’ vero che nel procedimento “La Rosa” erano stati imputati alcuni personaggi residenti a Gravina e ad Altamura (come Nicola e Pietro Coletta, Bartolomeo Dambrosio), tutti poi presenti nelle inchieste svolte a partire dal 1996, ma in quella sede non era stata avvertita né la portata del fenomeno, né la sua stretta derivazione da un’unica origine, né il collegamento con tutti gli altri sodalizi di stampo mafioso operante in Bari e dintorni e neanche, infine e soprattutto, la sua capacità di proseguire nel tempo, anche dopo le condanne inflitte dal Tribunale di Bari […]”.
Mentre questi paesi vedevano la presenza di un solo clan, Bari doveva fare i conti con le lotte intestine dei clan divisi per i vari quartieri. Il quartiere San Paolo era controllato dai Diomede e dai Montani, gli Anemolo dirigevano le attività illecite in Carrassi e San Pasquale, mentre il borgo antico era gestito dal clan di Antonio Capriati. Il numero di morti ammazzati è stato ingente sia tra i civili sia tra gli associati alla vita mafiosa, mostrando così la pericolosità della neonata mafia barese.
Le indagini e i processi
La società mafiosa murgiana si era concretizzata e aveva sviluppato una propria struttura interna ispirata a quella siciliana. In seguito a questa constatazione ebbero inizio le prime indagini di rilevante importanza nel territorio. Il dottor Rinella considera alcune di queste operazioni “come degne di particolare menzione”: la ”Conte Ugolino”, la “Murgia Libera”, la “Carlo Magno” e la “Gravina”, che videro tra gli imputanti alcuni esponenti della cosca criminale altamurana e della vicina cittadina, Gravina. Queste indagini “hanno portato all’individuazione di gravissimi fatti di sangue e all’arresto di centinaia di imputati”.
Fino al 1996 non vi era alcuna ipotesi che potesse “allignare” nel territorio di Altamura e Gravina un’organizzazione di stampo mafioso impegnata in traffico di armi e stupefacenti, rapine ed estorsioni benché nel procedimento “La Rosa” fossero state imputate figure come Nicola e Pietro Coletta, Bartolomeo Dambrosio e Domenico Manfredi, illustri esponenti della società criminale locale. Svolta rilevante vi fu in seguito al procedimento “Murgia Libera”, il quale si avvalse delle dichiarazioni di collaboratori di giustizia come Pietro e Domenico Coletta. Si accertò, grazie ad esso, l’esistenza del fenomeno, capitanato dal boss Francesco Matera (detto Ciccio).
’indagine “Conte Ugolino” confermò l’esistenza di una scala gerarchica nella società mafiosa e aspetti nascosti ed innovativi riguardanti le attività compiute dalle organizzazioni. Questi aspetti furono poi approfonditi nelle inchieste “Carlo Magno”, “Gravina” e “Canto del Cigno”. Si legge a riguardo nel libro sopra menzionato: “In particolare, l’inchiesta «Gravina» evidenzia come in Gravina di Puglia, e in altri centri viciniori del territorio murgiano, si era da tempo venuta a sviluppare e ad affermare un’organizzazione criminale di stampo mafioso, nata dalle ceneri dell’associazione «La Rosa». Tale associazione aveva mutuato dalla «camorra pugliese», fondata da Rogoli, regole e cerimonie e aveva svolto per lunghi anni tutte le attività criminali di tipo parassitario e profittatorio proprie delle associazioni mafiose, così da instaurare nel pacifico territorio della Murgia un clima di paura e di palese disagio sociale”.
La situazione che quindi veniva a crearsi era intrisa di *terrore e paura, anche tra gli stessi affiliati. La società mafiosa locale non era legata da concreti accordi di fedeltà, ma ogni piccola famiglia era a sé stante e fedele esclusivamente al proprio prestigio. Non mancarono, infatti, episodi in cui le rivalità tra famiglie terminarono “con l’eliminazione di chi contrasta il proprio pupillo”. Il dottor Rinella cita vari episodi: “Si pensi all’omicidio di Mario Lazzari, operante nella vicina Altamura, affiliato al potente Antonio Di Cosola, boss incontrastato nelle frazioni di Carbonara, Ceglie e Loseto, che viene eliminato per ordine di Bartolomeo Dambrosio, uno dei vecchi capi già nell’associazione «La Rosa». A sua volta Pietro Coletta, anch’egli camorrista dai tempi de «La Rosa», diventa collaboratore di giustizia quando si accorge che è nel mirino dei Magnone, nuova famiglia emergente, che operava sotto il controllo di Giuseppe Mercante, ai vertici della criminalità mafiosa nel capoluogo”.
Il processo che meglio ha illustrato il ruolo di Altamura nell’organizzazione mafiosa è stato “Carlo Magno” a cui si è poi sostituito “Murgia Libera”. Questo processo si basa sulla testimonianza di Clemente Alberto Leone, pregiudicato siciliano mandato ad Altamura in esilio forzato nel 1981 e poi divenuto latitante in seguito alla condanna definitiva per l’omicidio di Domenico Chironna. Leone, divenuto collaboratore di giustizia, confessò di aver “allestito e diretto un piccolo sodalizio criminoso”, con fulcro ad Altamura. Sempre Leone denunciò i legami tra il “sodalizio” e le forze armate del paese, facendo il nome di Giuseppe Valente, allora capo dei Carabinieri della Compagnia di Altamura. Tuttavia questa realtà criminale istituita da Leone si tenne ben lontana dall’ampia rete malavitosa della regione, restando fedele alla famiglia siciliana Di Blasi, dalla quale proveniva. Leone creò quindi una delle tante famiglie indipendenti e interessate al proprio profitto.
L'omicidio di Lucrezia Pascale
Come detto prima, le singole famiglie spesso miravano ad eliminare i propri rivali, a preservare il proprio nome ed a nascondere le attività illecite compiute. Fu a causa di questi motivi che la notte di Natale del 1998 si ebbe uno degli omicidi più efferati nella storia della mafia altamurana. Lucrezia Pascale, fidanzata di Domenico Manfredi (detto “Minguccio il bandito”), uno dei più vecchi camorristi pugliesi già dal tempo de “La Rosa”, fu brutalmente uccisa. Il suo corpo fu ritrovato martoriato e sezionato in un casolare abbandonato della Murgia nei pressi del parco La Mena di Altamura. Manfredi fu immediatamente identificato come il possibile mandante dell’omicidio, benché mancassero delle prove fondate e una possibile causale. Queste furono in seguito ottenute grazie alle dichiarazioni di Chimenti Nicola e Bosco Filippo, collaboratori di giustizia ed ex affiliati al clan di Manfredi. Costoro dichiararono che Lucrezia raccontò ad amici alcune delle attività illecite compiute da Manfredi. Questi, sotto pressione del clan, uccise Lucrezia per dimostrare all’organizzazione la propria fedeltà. Si pensa inoltre che le parti mancanti del corpo, quali la testa, la spalla e il braccio sinistro, abbiano rappresentato “la prova offerta al clan dell’avvenuta esecuzione”.
Lo scenario della mafia murgiana
“Quello della Puglia è un problema che non va assolutamente sottovalutato”; in questo modo il presidente della commissione antimafia Ottaviano Del Turco si espresse nel lontano 2000 dopo gli episodi di cronaca che videro al centro dell’opinione pubblica la Puglia e, in particolare, la provincia di Bari.
I primi segni della presenza mafiosa nel territorio altamurano sono stati avvertiti all’inizio degli anni ‘90, quando alcuni gruppi della criminalità organizzata decisero di ricavare maggiori guadagni con le attività illecite, in particolare con la richiesta del pizzo, il racket e lo spaccio di sostanze stupefacenti. Alcuni agguati, compiuti dai criminali nei confronti di imprenditori ma anche di singoli cittadini che si rifiutavano di pagare il pizzo, dimostrarono il diffondersi di questo preoccupante fenomeno. Nei primi mesi del 1992 si contarono dieci attentati a imprenditori e cittadini. La mafia decise di investire nel territorio murgiano, probabilmente a causa della rapida industrializzazione che coinvolse la città che contava 58.000 abitanti, dieci istituti bancari e migliaia di aziende per un fatturato annuo di 1.500 miliardi di lire. In seguito a ciò molti degli imprenditori del luogo decisero di richiedere il porto d’armi, anche a causa dell’incapacità di intervento delle forze pubbliche e della poca fiducia che si aveva in essi. In quell’occasione la parte sana della popolazione altamurana decise di dare un segnale forte e si organizzò trovando la propria strada per combattere il crimine. Fu istituito un Comitato con l’obiettivo di svolgere un’azione preventiva e educativa nella comunità cittadina. Fu organizzata una “Marcia della Legalità” e cinquanta imprenditori, in una lettera inviata al sindaco, pretesero una maggiore collaborazione delle forze dell’ordine.
La banda criminale che compiva attività illecite era capeggiata dal boss mafioso Bartolomeo Dambrosio, un istruttore di arti marziali affiliato al clan barese dei Palermiti. La DIA (Direzione Investigativa Antimafia) lo aveva definito il capo incontrastato dell’unico clan dominante ad Altamura. Egli all’età di 22 anni, fu accusato, insieme a un noto imprenditore edile, Franco Fecchio, di tentato omicidio, violenza aggravata, danneggiamento aggravato, detenzione e porto abusivo d'arma da fuoco, spari in luogo pubblico ai danni dell’ex senatore Decio Scardaccione sulla Strada Statale 407 Basentana il 28 Ottobre 1988. Si pensava, infatti, che tra Fecchio e Dambrosio ci fossero rapporti di lavoro continuativi. Quest'ultimo aveva il compito di recuperare i crediti dell'imprenditore ed era una sorta di suo uomo di fiducia. Probabilmente c’erano anche legami con la politica di quel tempo, anche se il senatore stesso, dopo essere stato dimesso dall’ospedale, dichiarò essere estraneo a tali legami. Bartolomeo Dambrosio fu condannato soltanto quattordici anni dopo, nel 2002, a otto anni e sei mesi di reclusione. Ma negli anni Novanta egli continuò a compiere attività illecite, in particolare lo spaccio di sostanze stupefacenti ed estorsioni, utilizzando per intimidire anche le proprie abilità nelle arti marziali.
In quegli anni a capo della criminalità altamurana c’era Mario Lazzari, detto “u fonge” (il fungo), un personaggio di spicco della malavita locale che fu freddato sotto casa sua il 9 gennaio del 1995 in un'imboscata durante la quale è stato crivellato di colpi di arma da fuoco. Secondo gli inquirenti, subito dopo la sua morte, a controllare gli affari ad Altamura è subentrato Bartolo Dambrosio, che si è circondato di suoi affiliati tra cui Giovanni Loiudice, Rocco Lagonigro, Vincenzo Ciccimarra, Domenico Fraccalvieri e Cesare Michele Oreste. Nonostante le numerose operazioni condotte dalla direzione distrettuale antimafia del capoluogo pugliese, tra cui “Saetta 2005”, “Il Canto del Cigno”, “Siria”, che videro l’arresto di alcuni esponenti e l’annientamento di alcuni clan, l’organizzazione mafiosa locale è riuscita sempre a mantenere il potere nelle proprie mani, creando un lungo periodo di tranquillità.
Omicidi ed omertá
La situazione è iniziata a degenerare nel 2010, quando qualcosa ha rotto la "pax" tra gli avversari che si contendevano il mercato delle sostanze stupefacenti. In tale ambito Altamura faceva gola sia perché era un grosso centro (contava circa 70 mila abitanti), sia perché rappresentava il crocevia tra la Puglia e la Basilicata.
Le prime vittime della nuova “guerra” furono Rocco Lagonigro, 32 anni e Vincenzo Ciccimarra, 38 anni. Lagonigro, sposato e con due figli, era un pluripregiudicato legato al clan dei Palermiti del quartiere Japigia di Bari. Ciccimarra, invece, era suo autista e collaboratore. Sono stati freddati in un agguato in pieno stile mafioso la mattina del 27 marzo 2010. I sicari attesero Rocco Lagonigro dinanzi alla sua abitazione (collocata in un quartiere molto affollato per la vicinanza del mercato) e aprirono il fuoco all’arrivo di Vincenzo Ciccimarra, giunto sul luogo a bordo di una macchina per prelevare il boss. Un regolamento di conti è stata l’ipotesi seguita immediatamente dagli investigatori per il duplice omicidio il cui l’obiettivo principale era Lagonigro.
Successivamente, ad essere eliminato, fu proprio il boss Bartolomeo Dambrosio. Ferito, immobilizzato, torturato e colpito alla nuca mentre faceva jogging la mattina del 6 settembre 2010. “Un omicidio strategico per chi intende assicurarsi un ruolo principale nella gestione delle attività criminali” così lo ha definito il Procuratore della Repubblica di Bari Antonio Laudati. Infatti gli unici indagati per l’omicidio sono stati Giovanni Loiudice, i suoi figli Alberto e Giovanni, e Francesco Palmieri.Giovanni Loiudice rimase latitante dal 17 novembre 2010 (quando sfuggì alla cattura per ordine di custodia cautelare emessa da Gip del Tribunale di Bari) al 24 dicembre dello stesso anno.
Tutti erano stati precedentemente alleati di Bartolomeo Dambrosio, però da quanto riferito da alcuni pentiti che hanno deciso di collaborare con la giustizia, (tra cui Biagio Azzilonna soprannominato “Missile”, che insieme a Michele Loiudice e a Francesco Palmieri fu arrestato con l’accusa di aver fatto parte del commando che il 6 settembre 2010 uccise il boss) l'omicidio sarebbe maturato nell'ambito della rivalità fra i due clan rivali (Dambrosio e Loiudice) che si contendevano il controllo di Altamura. Il coinvolgimento dei due fratelli Michele e Alberto Loiudice ha rappresentato per gli investigatori il chiaro segnale che l'omicidio sia maturato proprio all'interno della loro famiglia per volontà del padre.
Recentemente anche la moglie di Bartolo Dambrosio, Valeria Hiblova, ha deciso di svelare alcuni retroscena riguardanti il clan capeggiato da suo marito, diventando una testimone di giustizia. Ella ha riferito che suo marito era un agente di commercio, che aveva iniziato a lavorare in società con un noto imprenditore che si stava occupando anche della costruzione del nuovo ospedale della Murgia (una struttura sanitaria in costruzione dal 1997, a metà strada tra Gravina e Altamura che non è mai stato portato a termine). Il boss procurava ed organizzava le squadre di operai impegnate in vari cantieri nel territorio nazionale, prendendo una percentuale dell’appalto.
Ma per la Dda la versione della donna è stata parziale perché dagli accertamenti è emerso che Bartolo Dambrosio aveva una doppia faccia o, meglio, un doppio canale di guadagno. Da una parte ci sarebbero stati lo spaccio di droga, le estorsioni e l’usura, dall’altra le attività lecite, come quella di reclutare manodopera anche per il nuovo ospedale della Murgia.
Un altro elemento fondamentale riferito da Valeria Hiblova è il fatto che tutti cercavano il marito ed egli offriva la sua protezione sostituendosi allo Stato. Inoltre ha parlato di affari e di legami con imprenditori, tra cui Dante Columella, il re dei rifiuti della Murgia, già noto per vicende giudiziarie legate allo smaltimento illecito e alle presunte connivenze con la mafia.
I verbali con le dichiarazioni della donna sono contenuti nel fascicolo d’inchiesta della Dda di Bari e riguardano i “presunti intrecci tra mafia e politica ad Altamura”. L’indagine ha portato alla richiesta di rinvio a giudizio per quattordici persone accusate, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsione, usura, detenzione e porto di armi da guerra, lesioni personali, violenza privata, simulazione di reato, favoreggiamento e frode processuale. Tra gli indagati due carabinieri, avvocati, due ex consiglieri comunali altamurani e anche il sindaco di Altamura, incastrati da un’intercettazione relativa ad una chiamata fatta da un consigliere comunale alla moglie del boss defunto, in cui la donna accusava lui e il mondo politico di aver rinnegato qualsiasi legame con il Dambrosio.
Valeria, nella sua testimonianza, ha parlato anche dei rapporti di Bartolo Dambrosio con la mafia siciliana, affermando che era molto rispettato a Palermo in quanto da giovane aveva fatto parte di clan siciliani, aveva conoscenze in tutta Italia e manteneva rapporti con Savinuccio Parisi, boss del quartiere Japigia di Bari.
Il 27 Giugno 2011, quasi un anno dopo la morte del boss Bartolomeo Dambrosio, un altro sorvegliato speciale, Domenico Fraccalvieri, fu ucciso mentre usciva dal suo garage. Probabilmente il suo omicidio è riconducibile a quello del boss, finalizzato all’acquisizione totale del potere economico delle attività illecite sul territorio altamurano. Infatti, negli anni precedenti entrambi erano stati coinvolti nelle stesse operazioni antimafia tra cui “Siria” e “Il Canto del Cigno”.
Nonostante la morte di questi esponenti di spicco, il clan Dambrosio non ha mai cessato di operare. Al boss e ai suoi affiliati si sono sostituiti suo fratello Mario e Giovanni Sforza. I due sono stati ritenuti responsabili, a vario titolo, di usura ed estorsioni attuate, con l'aggravante del metodo mafioso, ai danni di due imprenditori locali in difficoltà economiche. Nel periodo compreso tra il novembre del 2007 ed il marzo del 2008, gli arrestati, in concorso con il defunto capo "clan", avrebbero prestato loro somme di denaro costringendo gli stessi a dare come garanzia dei titoli di credito più volte rinnovati e rinegoziati con importi maggiorati e con l'applicazione di tassi mensili compresi tra il 10% ed il 20%.
In seguito ai sei omicidi compiuti nel giro di un anno, la popolazione altamurana non è rimasta indifferente e ha cercato di dare un segnale forte, proprio come aveva fatto nel 1992. Un corposo numero di giovani, studenti, associazioni, ma anche lavoratori, esponenti politici organizzò un incontro che portò alla realizzazione di un presidio pubblico a favore della legalità e contro le mafie. Il sindaco, inoltre, indirizzò una lettera al sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano, al prefetto di Bari ed ai vertici delle forze dell'ordine della Puglia e della provincia di Bari sulla situazione della sicurezza, in cui invitò a valutare la necessità di convocare una riunione del comitato per la sicurezza e l'ordine pubblico monotematico sulla situazione di Altamura alla luce dei gravi fatti di sangue avvenuti in quell’anno.
I Processi
Una fonte di cognizione che ha suscitato in noi particolare interesse, per la veridicità dei fatti e circostanze avvenuti nel nostro territorio ad opera della criminalità di stampo mafioso, è stata la partecipazione all’udienza del processo in corso in Corte d’Assise di Bari a carico di Loiudice Giovanni e Alberto, rispettivamente padre e figlio, accusati a vario titolo di diversi reati e ritenuti i presunti mandanti dell’omicidio di Bartolomeo Dambrosio. Grazie all’interessamento di Alessandra Creanza, referente del Coordinamento cittadino “Altamura per la Legalità”, il Presidente della Corte di Appello di Bari, dott.ssa Clelia Galantino, ha consentito la partecipazione del gruppo all’udienza del 14 Febbraio 2013.
All’udienza erano presenti oltre ai due imputati, Loiudice Giovanni e Loiudice Alberto, gli Avvocati difensori e il Pubblico Ministero in persona della dott.ssa Desirèe Digeronimo. Nel corso dell’udienza abbiamo potuto ascoltare in videoconferenza e alla presenza del suo legale, il teste dell’accusa Vito De Felice, attualmente collaboratore di giustizia. Il De Felice ha riferito alla Corte, rispondendo alle domande del PM, il contenuto di due conversazioni avvenute tra lui e il Loiudice Giovanni quando erano detenuti presso la stessa casa circondariale e condividevano la medesima cella.
Il collaboratore De Felice ha riferito alla Corte una confidenza fattagli dal Loiudice Giovanni. Egli infatti affermava che il Loiudice gli avrebbe confidato che il figlio maggiore Michele, e Francesco Palmieri, entrambi detenuti presso la Casa circondariale di Bari in seguito a condanna definitiva, dovevano assumersi la totale responsabilità dell’omicidio così da scagionare lui ed il figlio minore Alberto. Infatti Michele Loiudice, figlio maggiore di Giovanni, e Francesco Palmieri devono scontare la pena a venti anni inflittagli dal Gup del tribunale, Antonio Diella, che li ha condannati per essere stati gli esecutori materiali dell’omicidio Dambrosio. Nello stesso procedimento, svoltosi con rito abbreviato, per l’omicidio Dambrosio fu condannato a dodici anni e otto mesi anche Francesco Maino mentre fu assolto il quarto imputato, Rocco Ciccimarra, accusato di aver custodito le armi del clan.
L'altamurano Domenico Cicirelli è stato arrestato in seguito all'emissione della prima sentenza della Cassazione nell'ambito dell'inchiesta sui presunti intrecci tra mafia, imprenditoria e politica ad Altamura. In seguito all'opposizione della Dda alla Cassazione, è stato associato presso la casa circondariale di Bari. Gli sono state riconosciuti i reati di associazione mafiosa, lesioni personali, violenza privata (ai danni del giornalista locale Alessio Dipalo), estorsione, usura e favoreggiamento.
L'inchiesta della Dda di Bari coinvolge 15 imputati accusati a vario titolo di associazione mafiosa, lesioni personali, violenza privata, estorsione, usura, detenzione e porto di armi da guerra, simulazione di reato, favoreggiamento personale e frode processuale. Tra questi Nicola Logiudice, all'epoca dei fatti comandante della stazione dei Carabinieri di Altamura; Massimo Carotenuto, maresciallo presso la stessa stazione; Vincenzo Siani, avvocato; Vito Zaccaria, ex assessore comunale; Mario Dambrosio, fratello del boss Bartolo Dambrosio; l’imprenditore altamurano Mario Clemente; Giuseppe Bruno, accusato dell’omicidio di Biagio Genco in concorso con Bartolo Dambrosio.
Al termine dell’udienza è stata concessa un’intervista al gruppo dalla dott.ssa Desirè Digeronimo che ha presieduto all’udienza.
Intervista al Pubblico Ministero Desirèe Digeronimo DDA di Bari
Domanda:Sulla base dei fatti avvenuti negli ultimi anni, perché si può parlare di mafia ad Altamura?
Desirèe Digeronimo: Non posso parlare delle indagini che seguo personalmente, però a prescindere da tutto questo, ci sono state delle inchieste che hanno riguardato il territorio di Altamura e che hanno accertato la presenza di gruppi organizzati capaci di controllare il territorio e di esercitare un potere di intimidazione sulla popolazione, al fine di svolgere attività illecite in particolare spaccio di sostanze stupefacenti ed estorsioni. Uno dei primi processi che ha riguardato il territorio di Altamura è stato il processo che io ho (con)seguito quando non ero ancora nella Direzione Distrettuale Antimafia ed era un processo del Dottor Rinella. Si chiamava “Carlo Magno” ed io lo seguii perché il Dott. Rinella se ne andò per un periodo in applicazione in Sicilia. Era iniziato con le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, un pentito che si chiamava Carlo Alberto Leone, di origine siciliana, stabilitosi nel territorio di Altamura e dove creò una propria associazione di stampo mafioso. Per la verità, il processo ha portato al non riconoscimento del 416-bis, ma di altre ipotesi di reato. Però questo è il primo ricordo che ho delle attività svolte dall’autorità giudiziaria con riferimento alla città di Altamura; poi ci sono stati una serie di altri processi come “Murgia Libera” oppure “Il Canto del Cigno”. Quello che contraddistingue il gruppo di tipo mafioso rispetto agli altri è il fatto di avere una organizzazione di tipo gerarchico all’interno, un rituale di affiliazione, un controllo del territorio e, ovviamente, la capacità di esercitare sulla popolazione esistente nel territorio atti di intimidazione che inducono all’omertà cioè al fatto di non denunciare e di subire la pressione di queste organizzazioni criminali.
Domanda:Quali attività economiche controlla la criminalità organizzata nel nostro territorio? Da quando esercita questo predominio e come si è evoluto nel tempo?
Desirèe Digeronimo: Le attività che la criminalità organizzata controlla sono quelle illecite, quindi attività economiche illegali, prevalentemente spaccio di sostanze stupefacenti, provento di estorsioni (ad esempio a cantieri edili), usura; poi c’è un’attività che è quella del reimpiego di questi proventi, realizzati in maniera illecita, attraverso attività criminali, in attività lecite; per cui abbiamo un’economia lecita che si nutre di proventi illeciti. Quando sequestriamo i beni dei mafiosi, noi andiamo a sequestrare anche quelle azioni economiche e commerciali che sono state per esempio avviate attraverso la vendita di sostanze stupefacenti. Prevalentemente queste sono le attività illecite in Puglia. […]
La criminalità organizzata da sempre esercita il suo predominio attraverso forme comportamentali gerarchiche. L’organizzazione di tipo mafioso tende a sovrapporsi allo Stato sia per quanto riguarda il tipo di struttura e sia per il tipo di infiltrazione nel territorio, cercando di inserirsi in spazi lasciati vuoti dallo Stato stesso. Se questo non è presente in un determinato luogo assicurando la sicurezza ai cittadini con le forze dell’ordine, là tende ad infiltrarsi la criminalità organizzata perché, avendo capacità d’intimidazione sulla società e potendo contare sul fatto che i cittadini non denunciano, punta a controllare una determinata città o un determinato quartiere e a diventare riferimento per la gente. Spesso non solo impone il pizzo ma i cittadini si rivolgono ad essa per risolvere i propri problemi.
In verità nella nostra regione i modelli di organizzazione criminale sono stati mutuati da altre realtà malavitose, ossia la Sicilia, la Calabria e la Campania.
Il fenomeno è relativamente recente anche se i rituali di affiliazione delle organizzazioni di stampo mafioso sono gli stessi da sempre: la favella che viene recitata quando ci si affilia al sodalizio con tutte le formule sacramentali, il santino ed altri rituali che non sono mai cambiati nel tempo. Quello che cambia, invece, sono le modalità con cui vengono svolte le funzioni criminali, per cui ci sono metodi sempre più sofisticati che vanno di pari passo con l’evoluzione della nostra società. Ci si avvale di strumenti informatici per la comunicazione per non essere intercettati. La mafia è un fenomeno sociale che si evolve e si adegua ai tempi.
Domanda: A suo parere esiste un rapporto tra criminalità organizzata e classe politica?
Desirèe Digeronimo: Rispetto alle esperienze giudiziarie, esistono casi in cui si sono accertate infiltrazioni della criminalità organizzata nella politica; se prendiamo in considerazione la Sicilia e la Calabria, indagini recenti hanno portato alla luce le connivenze e le complicità tra alcuni politici e la mafia, come ci dimostra la trattativa Stato-Mafia di cui si parla tanto. È evidente che la mafia ha anche un suo rapporto con una parte della politica, singoli personaggi politici, perché è legata al territorio. Ad esempio il politico che chiede i voti ai mafiosi per avere il consenso elettorale; il politico in questo caso compie un reato e consolida il radicamento nel territorio come il mafioso. Per mafioso non si intende il rapinatore che delinque e che viene perseguito per il gesto che ha compiuto, ma l’affiliato ad un’organizzazione che ha una sua vita e che prescinde dal singolo delitto che viene commesso, perché il reato di mafia è quello di mantenere in vita una struttura organizzata.
Domanda: Come si può combattere la mafia e noi ragazzi con quali armi possiamo contrastare questo fenomeno?
Desirèe Digeronimo: Penso che la repressione giudiziaria corrisponda a un decimo rispetto a quello che si può fare per combattere la mafia, perché in realtà la mafia si combatte cambiando la nostra coscienza, la nostra cultura, la nostra mentalità, il nostro modo di essere, rifiutando le modalità mafiose, rinunciando ad essere complici di una certa cultura che è quella del sopruso, della violazione della legalità, dell’affermazione della forza sul diritto. Quello che favorisce la mafia è il nostro silenzio, la nostra reticenza, la nostra paura, la nostra sottomissione a certi comportamenti di sopraffazione. Quello che invece indebolisce la mafia è proprio il dire “NO”, dire “NON SONO COME TE”. So che è difficile affidarsi totalmente allo Stato, però questo è l’unico modo per togliere il potere alla mafia e farla morire di fame. Per esempio se i ragazzi non comprassero la droga e non si affiliassero alle organizzazioni malavitose, esse non consoliderebbero il proprio potere. I semplici ragazzi affiliati sono anche loro delle vittime perché sopravvivono a livello economico, ma vengono uccisi per strada oppure vengono arrestati, mentre i grossi profitti vanno ai capi. Falcone diceva: “La mafia ha avuto un inizio e prima o poi avrà una fine”. Quello che veramente potrà sconfiggere la mafia sarà una svolta nella coscienza dei cittadini che non devono rivolgersi più alle associazioni criminali per dei favori, non sopportando più in silenzio ciò che tutti sanno, andando in questura a denunciare sapendo che poi ci saranno la polizia, i carabinieri, l’autorità giudiziaria che faranno il resto.
Considerazioni finali
Nonostante i numerosi fatti inquietanti che riguardano la mafia ad Altamura, c'è chi ha detto e dice basta a questa situazione omertosa. Ne è un esempio la reazione dei cittadini altamurani che nel lontano gennaio1992 promossero una manifestazione di decine di migliaia di persone. Pochi giorni prima, infatti, erano stati piazzati degli ordigni esplosivi in diversi punti della città per intimidire ed estorcere denaro a commercianti ed imprenditori.
In risposta alle tristi vicende che hanno coinvolto Bartolomeo Dambrosio, nel 2011 è stata aperta la sede dello Sportello Antiracket e Antiusura. Questo luogo è diventato un punto di riferimento per la legalità, aiuta nel monitoraggio dei fenomeni di illegalità che soffocano e inquinano l'economia sana. Rappresenta un punto informativo e di ascolto, mira a sostenere le vittime, incoraggiandole a denunciare e assistendole costantemente dopo la denuncia.
Successivamente nel 2012, in occasione della celebrazione dell’anniversario della morte del giudice Giovanni Falcone, adulti e giovani delle scuole di Altamura sono scesi in piazza per manifestare contro ogni forma di violenza, contro il triste ricordo dell'attentato presso l'istituto "Morvillo-Falcone" di Brindisi nel quale perse la vita la sedicenne Melissa Bassi.
Possiamo sempre fare qualcosa. La mafia essendo un fenomeno sociale, non può essere repressa senza un radicale mutamento della società e della mentalità. I risultati si ottengono con un impegno costante, quotidiano, duro. Senza bluff. Il nostro compito è quello di ricordare le grandi personalità che in prima linea hanno combattuto contro la mafia, a costo della propria vita, che sono state in grado di smuovere le coscienze, di mobilitare l'operato di numerose associazioni. La più grande vittoria della mafia sarebbe quella di farle credere che non esiste, di essere indifferenti.
La voce contro il silenzio: il nostro slogan. Non è la parola in sé a spaventare ma che si possa venire a conoscenza di determinati eventi e i meccanismi che li hanno causati. Le parole diventano assai pericolose nel momento in cui si corre il rischio di perdere la vita.
Abbiamo ancora molta strada da percorrere ed è necessario ricordare l'insegnamento del giornalista Montanelli: "Anche quando avremo messo a punto tutte le regole, ne rimarrà sempre una: quella che fa obbligo ad ogni cittadino di regolarsi secondo coscienza". Il destino di un Paese migliore dipende da ciascuno di noi. Sconfiggere la Mafia non deve essere un'utopia.
Rimbombano le parole di Paolo Borsellino " [...]Nessuno ha perso il diritto e il dovere sacrosanto di continuare questa lotta. Abbiamo un grosso debito e dobbiamo pagarlo gioiosamente continuando la loro opera, facendo il nostro dovere". Spetta a noi cittadini onesti attraverso espressioni di civiltà, arginare questo fenomeno.
Quanto tempo è necessario per sconfiggere la Mafia? Non si sa. Certo è che se ciascuno di noi facesse la sua piccola parte, ce ne vorrà molto meno.
Tutte queste personalità hanno sempre destinato le loro parole, la loro forza, speranze ai giovani, per aiutare loro a resistere al "fascino" delle azioni criminogene e trovare una giusta alternativa.
Non diremo mai abbastanza grazie a chi si impegna per il bene del proprio Paese e ci mette fatica. Sentirsi utili è importante, è doveroso reagire con un progetto, una proposta, un atto concreto.
Ringraziamenti
Per il loro aiuto e supporto siamo riconoscenti nei confronti del Dirigente Scolastico Prof.ssa Giovanna Cancellara e dei professori Giuseppe Dambrosio e Monica Lasorella che hanno seguito passo dopo passo la stesura dell'elaborato.
Siamo grati alla giovanissima Alessandra Creanza per il suo incoraggiamento, i suoi consigli, per aver creduto in questo progetto e per il suo supporto incondizionato.
Un ringraziamento particolare va alla Dott.ssa Desirèe Digeronimo che con gentilezza e disponibilità, ci ha concesso parte del suo tempo prezioso, informandoci sugli avvenimenti di stampo mafioso che hanno caratterizzato il nostro territorio.
Vorremmo ringraziare anche la Dott.ssa Clelia Galantino, Presidente in Corte d' Assise, che ha permesso a tutti noi di assistere al processo presso il Tribunale di Bari, che vede come protagonisti i presunti mandanti dell'omicidio di Bartolo Dambrosio.
Fonti di conoscenza
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Leonardo Rinella, Dieci anni di mafia a Bari e nei dintorni, dal Conte Ugolino al Canto del Cigno, Progedit Nuova Edizione, Bari 2003.
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Sentenza della Corte Di Appello di Bari II Sezione Penale presieduta dal magistrato Dott. Francesco Malcangi in data 18 Maggio 1990.
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Sentenza de “Il Giudice per le indagini preliminari” presso il tribunale di Bari presieduta dal Dott. Daniele Rinaldi in data 24 Marzo 1998.
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Articoli tratti da “La Gazzetta del Mezzogiorno”, “La Repubblica”, “Corriere del Mezzogiorno” e dai siti “AltamuraToday”, “AltamuraLife”, “NotizieOnline”.