La forma di vita che detta legge
di Marco Dotti
Saggi. «Malavita» per le edizioni Mimesis. Una riflessione a più voci sul come la mafia sia diventata un modello per l’attività economica «ufficiale», cancellando così il confine tra legalità e illegalità.
«Che cosa è la mafia?». La celeberrima e scontatissima domanda venne posta, nel 1980, da un magistrato romano a Frank Paulo Coppola, noto come [/ACM_2]threefingers («Tre dita») per via di una mutilazione guadagnata sul campo. Nel corso di una rapina in banca, Coppola si ritrovò infatti due dita della mano sinistra incastrate nella cassaforte e per liberarsi non esitò a tagliarsele. Una sorta di ferita simbolica, guadagnata col più consueto dei rituali pratici della mala estorsiva: la rapina. Ma, al tempo stesso, quella pratica si era rivelata un modo preciso per «indossare il sacro», ammantando d’aura la propria forma di vita. Pratica che, nel micromondo della malavita, da sempre si declina in forma di tatuaggi, tagli, mutilazioni, sversamenti di sangue.
Sia come sia, Coppola non si sottrasse alla domanda e, ricorda Giovanni Falcone nel suo Cose di cosa nostra (Rizzoli), a precisa domanda, precisamente rispose: «Signor giudice, tre magistrati vorrebbero oggi diventare procuratore della Repubblica. Uno è intelligentissimo, il secondo gode dell’appoggio dei partiti di governo, il terzo è un cretino, ma proprio lui otterrà il posto. Questa è la mafia». Se guardiamo bene nella storiella di Coppola si delinea un’opzione gerarchico-manageriale «smart», non troppo dissimile da quella avanzata, sotto una velatura umoristica, dallo psicologo canadese Laurence J. Peter e nota come principio di incompetenza. Per consolidarsi, una struttura gerarchica tende a far salire ognuno al primo grado della sua incompetenza. Quando dalla raccomandazione si passa al controllo integrale delle risorse di enti, aziende, istituti e università, l’incompetenza può assumere il rivestimento e l’investimento della legge, senza entrare in contraddizione con le logiche della competenza tecnico-formale.
La prevalenza dei cretini
Scriveva Max Horkheimer che «quando un’organizzazione è così potente da garantire il mantenimento della sua volontà all’interno di un certo ambito geografico come regola stabile di comportamento per tutti gli abitanti, allora il dominio delle persone assume la forma della legge». Una legge che fissa i rapporti di potere e di dominio. Ma qual è la chiave di volta di questa «fissazione» e di questo dominio?
La forma fondamentale del dominio è il racket. E il racket che altro è se non una «congiura contro lo spirito» e, dunque, contro l’intelligenza – da cui consegue la prevalenza del «cretino»? A scriverlo fu proprio Horkeimer, in un testo tanto breve, quanto denso composto fra il 1939 e il 1942, originariamente pensato, ma poi escluso, per l’appendice della Dialettica dell’Illuminismo. Un testo, Die Rackets und der Geist (Le espressioni del racket e dello spirito) che, ben introdotto da Vincenzo Cuomo e nella traduzione di Gabriella Baptist, apre l’interessante annuario che il gruppo di studiosi riuniti attorno alla rivista «Kainós» ha dedicato a un tema cruciale per i nostri giorni: la malavita (Malavita, Kainós, Annuario n. 2, Mimesis, pp. 228, euro 16). Un tema affrontato fenomenologicamente e genealogicamente, seguendo il testo-guida di Horkheimer e quello della lezione tenuta al Collège de France il 21 febbraio del 1973 da Michel Foucault, lezione che verte non a caso proprio su Illegalismo, capitalismo e sistema finanziario. Tema, quello della malavita, qui letto in chiave filosofica non solo per quanto attiene l’analisi dei rapporti coestensivi dell’illegalità con la legge, ma soprattutto, empiricamente, nel suo presentarsi, sempre più più lontano dai margini, come «forma di vita».
«Ordalica e primordiale, ma al tempo stesso profondamente trasformata e normalizzata dalla globalizzazione postmoderna» – si legge nell’editoriale – la malavita è diventata qualcosa di più e di diverso, rispetto al suo stereotipo vetero-romantico del masnadiere schilleriano. È un fenomeno culturale, sociale, ma anche biologicosempre più implicato nel Finanzmarkt-kapitalism. Inevitabile, dunque, che le modalità per estrarre valore da ecosistemi, persone e cose, tipizzata nella figura estorsive del racket, punti infine nel cuoredella vita stessa.
Quando l’illegalità si mette la maschera della legalità, son guai per tutti, perché non solo fuori, ma anche dentro il pieno dominio della legge non si danno più spazi aperti. Nessuna speranza per la vita letteralmente hors-la-loi. Il racket diventa così una dimensione fondamentale e persino universale della forma senza spirito che avanza.
Otto anni dopo l’affermazione di Frank «Three fingers» Coppola, nei Commentari sulla società dello spettacolo Guy Debord aveva d’altronde ribadito che fra mafia e sistema spettacolare esisterebbe una profonda affinità. La contiguità con lo Stato, l’uso del segreto, la proliferazione di un presente senza storia come terreno di coltura del «cretino» fanno sì che l’iniziale «archaïsme» delle mafie si trasformi nel «modello per tutte le imprese commerciali avanzate». Pur mantenendo elementi di tribalismo analfabeta, la malavita mafiosa si presenta come una modalità strutturale del sistema politico-economico e sociale. Il cretino prevale, perché – è, infine, ancora Debord a ricordarcelo – l’economia tardo-capitalista è strutturalmente, ma mediocremente mafiosa, poiché attraverso la diffusione spettacolare dell’ignoranza, soprattutto, impone ovunque la formazione di legami di dipendenza e protezione.
La legge della frode
Legale e illegale cancellano dentro e fuori, lasciando ogni critica su un confine sempre più incerto. Come attività illegale, nel suo etimo il termine racket rimanda a attività di «disturbo», «insistenza», persino «dispendio», «rumore» o «brusio». L’Oxford English Dictionary riporta : «a dishonest or fraudulent line of business» ma anche — questo il punto — «a method of swindling for financial gain». Fra business, finanza e frode, però, non sembrano esservi nemmeno più «linee» di rottura eticamente percepibili. Una sola linea lega ciò che prima stava (o credevamo stesse) «dentro» e ciò che stava (o credevamo stesse) «fuori». Bisognerebbe riaprire il varco.
Riaprire il varco fra dentro e fuori, scriveva Horkheimer, è però il compito della politica. Per questo, «nella vera idea di democrazia, che nelle masse conduce un’esistenza rimossa, sotterranea, il presagio di un’esistenza libera dal racket non si è mai del estinto. Svilupparne l’idea significa certamente interrompere una gravosa suggestione che colloca la vera critica del racket ancora al suo servizio».
Il Manifesto 25.02.2014