I topi ballano nel formaggio della Grande Opera
di Piero Bevilacqua
Corruzione. Devi essere pronto a qualunque misfatto per far girare la macchina. E’ l’etica neoliberista, lo spirito dell’attuale capitalismo. Modesti politici locali e nazionali di colpo diventano padroni di un territorio da cedere al privato. Corruzione e distruzione vanno insieme.
Vasto dibattito sulla corruzione dilagante. Si cerca di distillare dalla melma quotidiana i caratteri di fondo della speciale pestilenza che imperversa sui cieli d’Italia. In una delle sue pastorali domenicali, Eugenio Scalfari, intimo ormai del nostro pontefice, riferiva il giudizio di papa Francesco sulle cause spirituali: «cupidigia di potere, desiderio di possesso». Il papa più radicale dell’evo moderno coglie nel segno. Ma certo l’accaparramento di beni e potere, febbre dell’individuo contemporaneo, è una costruzione storica, non il risultato della perduta innocenza dell’Eden.
E’ il frutto dell’immaginario collettivo soggiogato dai valori dominanti, drogato dalle trombe quotidiane di un linguaggio pubblico fatto di esortazioni, di incitazioni a crescere, a correre, a produrre di più, a lavorare più a lungo, a consumare oltre, a essere flessibili, efficienti, più belli, più giovani, ad “entrare nel futuro” tramite l’acquisto di qualche nuova auto o televisore ad ampio schermo. E’ dunque l’etica neoliberistica – per fare il verso a Weber – che anima l’attuale spirito del capitalismo, a forgiare gli individui, pronti a qualunque misfatto per ubbidire agli imperativi dell’epoca. E i media, che ora vendono al pubblico le notizie-merce sulla corruzione, sono gli stessi strumenti che distillano correntemente gli impulsi ideologici di cui essa si alimenta. Ma la corruzione mostra anche dell’altro: lo stato nazionale, non solo va perdendo la sua sovranità politica, vede anche disfarsi i suoi collanti civili, per il venire meno di un’idea di società come progetto collettivo.
Tuttavia, il fenomeno di cui si parla in questi giorni – che certo in Italia assume caratteri speciali – non può essere limitato agli episodi di accaparramento di denaro, aste e bilanci truccati, come fanno universalmente cronisti e commentatori. Gli scandali dell’ultimo mese, per essere afferrati nella loro gigantesca portata, vanno riportati alla misura delle “grandi opere” e collocati nel contesto italiano.
Nelle intenzioni oneste (e nella pubblicità politica) le grandi opere avrebbero il fine di mettere insieme investimenti pubblici e capitali privati per realizzare manufatti di generale utilità, creando al tempo stesso un certo numero di posti di lavoro temporaneo, allargando il mercato dei materiali per alcune fasce di imprese. Osservate nella realtà esse appaiono costruzioni ben più complesse: costituiscono un modo di operare del capitalismo del nostro tempo. Le grandi imprese non investono nella produzione di un nuovo bene, ma nella creazione, in genere, di un servizio. E utilizzando una materia prima non riproducibile: il territorio. Le grandi opere si realizzano consumando e manipolando in modo più o meno irreversibile il nostro habitat. Ed esse sono possibili, com’è noto, grazie al protagonismo del potere pubblico. E qui si annida una prima e spinosa questione. Chi è il potere pubblico? In genere un sindaco, gli amministratori locali, parlamentari, dirigenti di partito, vale a dire rappresentanti del ceto politico.
Questa nuova figura del nostro tempo, senza più ideali a cui ispirarsi, al momento di entrare in contatto con le grandi imprese, subisce una metamorfosi incontenibile. I modesti politici locali e nazionali, immersi nella normale routine, di colpo si ritrovano detentori di un potere enorme, quello di concedere una porzione del territorio nazionale all’uso del capitale privato. La politica entra in contatto con le grandi imprese e tale passaggio le squaderna davanti possibilità impensabili: danaro, potere, contatti importanti con le élites della finanza, visibilità mediatica, buona stampa, ecc. Buona stampa: quel che non emerge mai nelle cronache e nei commenti di questi giorni è il potere di formazione di opinione pubblica che hanno le grandi imprese, attraverso i media locali e nazionali. Quanta nascosta corruzione lega il potere economico-finanziario al mondo del giornalismo?
E’ evidente che da questo contatto tra grande impresa e politica sortisce un risultato ormai costante: scolorisce sempre più il proposito di realizzare il bene pubblico e nasce una convergenza di interessi tra due distinti poteri, in cui soccombe l’interesse collettivo.
Sorge dunque una prima rilevante questione: com’è possibile che dei singoli cittadini, in quanto semplicemente eletti (sindaco, parlamentare, ecc) si intestino la potestà di decidere sul destino di aree a volte vaste e delicate del nostro paese? A chi appartiene la Laguna di Venezia, all’ex sindaco Orsoni, all’ex ministro Galan e ai suoi predecessori o, per caso, agli abitanti di Venezia? Se non altro perché la Laguna, e la stessa città che noi ereditiamo, sono il frutto di un’opera secolare di conservazione, realizzata con ingenti sforzi da innumerevoli generazioni di veneziani. E la Val di Susa — già collegata alla Francia con un ferrovia internazionale, con una autostrada e con altre due strade minori — che si vuole sconvolgere con un tunnel di ben 57 km? A chi appartiene la Val di Susa, al sindaco di Torino, a Prodi a Berlusconi, al ministro Alfano, che l’ha messo sotto assedio con una operazione di guerra di posizione? O non per caso alle popolazioni che da secoli l’hanno resa produttiva contribuendo alla ricchezza nazionale, che l’hanno curata e mantenuta per noi e per le generazioni che verranno? E dov’è il superiore fine nazionale che dovrebbe far tacere i diritti locali? E il sottosuolo di Firenze, dov’è in corso una dissennata opera di escavazione per costruire una stazione sotterranea destinata alla Tav? Appartiene all’ex sindaco Renzi o agli attuali ministri in carica? E che dire dei costi, che secondo il parere di esperti come Marco Ponti, sono di almeno 4 volte superiori rispetto a una stazione di superficie ? Senza dir nulla dei pericoli di dissesto che corre la città, patrimonio dell’umanità. Sono affari degli italiani o del ceto politico, alcuni rappresentanti dei quali sono già sotto inchiesta per questi lavori?
Ma c’è, nel caso delle grandi opere italiane, un aspetto che getta su di esse un’ombra di discredito universale e irrimediabile, sotto cui bisognerà seppellirle. E si deve partire dalla domanda: ma in Italia abbiamo davvero bisogno di grandi opere? Abbiamo bisogno di trasformare la Stazione Centrale di Milano in un labirinto di boutiques che rallentano l’accesso al metro, di costruire una sontuosa opera da archistar nella stazione di Reggio Emilia, cattedrale nella campagna per pochi treni e per pochi passeggeri? Ma noi abbiamo quasi tre milioni di pendolari, lavoratori che tengono in piedi il Paese, serviti da treni in condizioni degradate. E i treni merci? Il trasporto su merci arriva oggi a coprire un misero 6% del totale dei flussi, mentre cresce di anno in anno il trasporto su gomma e le autostrade sono al collasso. E’ così che si sostiene il sistema-paese?
Tali considerazioni valgono come preliminari per una situazione di paradosso ormai esplosiva della vita italiana: noi abbiamo davanti una gigantesca e ignorata questione territoriale, fonte di costi continui e crescenti che dissanguano le finanze pubbliche. Il nostro territorio, che per secoli è stato sistematicamente curato e posto in equilibrio dalle popolazioni contadine e dagli ingegneri idraulici, oggi non ha più manutentori, è assediato dal cemento, viene anzi progettualmente devastato dal potere pubblico con le grandi opere. Eppure, ce lo hanno ricordato di recente gli studiosi che hanno collaborato a un volume dell’ Istituto Nazionale di Geofisica (ne ho scritto sul il manifesto del 19 giugno), per i disastri idrogeologici degli ultimi 50 anni noi sopportiamo un costo annuo di 4,5 miliardi di euro. E una somma quasi equivalente spendiamo nel riparare i danni prodotti dai terremoti che con implacabile periodicità ogni 4–5 anni colpiscono qualche nostra città o centro abitato.
Dunque quale etica civile può esserci nel progetto di grandi opere che, a prescindere dalla corruzione, distraggono danaro pubblico in opere di dubbia necessità a fronte dei bisogni drammatici del nostro territorio? Mentre le scuole dei nostri ragazzi sono insicure? Mentre le vere “Grandi opere”, quelle che ereditiamo dal nostro passato, da Pompei alla necropoli fenicia di Tuvixeddu in Sardegna, rischiano la degradazione per assenza di cure? Ecco un vasto campo egemonico che la sinistra radicale e popolare può occupare: propugnando un vasto progetto di piccole opere, poco costose e ad alta intensità di lavoro, diffuse, mirate a creare un sistema efficiente di trasporti su ferro, a valorizzare le aree interne con agricoltura e forestazione di qualità, a curare i fiumi e utilizzare le acque interne. Rendiamo permanente nell’immaginario nazionale l’identificazione fra grandi opere e la casta corrotta e imponiamo la nostra superiore progettualità.
Il Manifesto 24 giugno 2014