La riforma dei Beni culturali e la memoria "usa e getta"
di Giovanni De Luna
Per restituire spessore al nostro passato c'è bisogno di più storia e meno memoria; purché sia ancora possibile fare storia e non ci si ostini a considerare i musei, le biblioteche, gli archivi spazi ludici per riempire il tempo libero delle vacanze.
Il progetto di riorganizzazione del ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo (Mibact) appena annunciato è stato subito accolto da polemiche e contestazioni. L'intento è quello di applicare le regole della 'spending review' dettate dal governo. Le linee guida elaborate dal ministro Franceschini lasciano però affiorare il disegno più complessivo di una riforma che si propone anzitutto una integrazione maggiore tra le competenze ministeriali sui beni culturali e sul turismo, con una netta propensione perle ragioni del secondo su quelle dei primi. Il provvedimento prevede, infatti, che «le Direzioni generali centrali competenti per i beni culturali siano arricchite di funzioni rilevanti anche per il turismo, come ad esempio la realizzazione di itinerari e percorsi culturali e paesaggistici di valenza turistica», con una marcata accentuazione di compiti che paiono tipici dei tour operator e che si riferiscono ai musei come «miniere d'oro» da sfruttare (l'espressione è proprio di Franceschini). Molti musei italiani si sono già adeguati alla formula consumo spettacolo, puntando sulla messa in scena, sulla rappresentazione; vero e falso, realtà e simulazione si intrecciano oggi in scenografie che possono essere classicheggianti o avveniristiche ma che sempre e comunque hanno lo scopo più di emozionare che di trasmettere conoscenza.
Questa visione potrebbe essere accettabile se fosse in grado di assicurare nuove risorse senza penalizzare la gestione e la conservazione di un patrimonio culturale che ha bisogno di essere tutelato per ragioni che c'entrano poco con la sua capacità di generare profitti e molto con quelle del patto di memoria su cui si fonda lo spazio pubblico della nostra cittadinanza. Non è così. Lo si vede dal modo in cui nel progetto di riforma vengono trattati i beni archivistici. L'organizzazione degli archivi subisce infatti un drastico ridimensionamento che va molto oltre la 'spending review (la riduzione del numero dei dirigenti archivisti è del 50% invece del 20%). Si sopprime l'Istituto Centrale per gli Archivi; si aboliscono le Soprintendenze archivistiche, cancellandone il ruolo fondamentale per la tutela degli archivi non statali che nella società contemporanea sono di gran lunga più numerosi e più diffusi di quelli statali; si attribuiscono queste funzioni ai direttori degli archivi di Stato collocati nei capoluoghi di regione, da anni privi di uomini e mezzi e che già oggi solo a stento riescono a svolgere i compiti che sono loro propri. Domani non saranno in grado né di tutelare gli archivi non statali né di conservare gli archivi dello Stato e renderne possibile la consultazione.
Senza gli archivi, senza i loro documenti, senza la ricerca, non c'è la storia. Quella che rimane è una storia «usa e getta», volatile, senza spessore, da consumarsi in un sentimento esotico del passato perfettamente in linea con le ragioni «turistiche» della riforma. Con il moltiplicarsi ossessivo delle «giornate della memoria», la desertificazione dello spazio della religione civile ha prodotto una elefantiasi della memoria pubblica che favorisce più l'oblio che il ricordo. Per restituire spessore al nostro passato c'è bisogno di più storia e meno memoria; purché sia ancora possibile fare storia e non ci si ostini a considerare i musei, le biblioteche, gli archivi spazi ludici per riempire il tempo libero delle vacanze.