NON SAPERE, PER FINTA E DAVVERO. APPUNTI SU “BELLUSCONE” PER UNA STORIA CULTURALE DI PALERMO
di Giorgio Vasta
Belluscone è (anche) un film sul linguaggio. Più esattamente sull’esperienza linguistica palermitana. O meglio ancora sulla frequente coincidenza palermitana tra linguaggio e indicibilità. In Belluscone Franco Maresco filma corpi, volti, bocche, il teatrino della parola allestito in ogni bocca, l’avventura rocambolesca di una lingua fondata sul costante andirivieni dal palermitano all’italiano al palermitano, lo sfarinarsi del lessico, la sintassi che si imbizzarrisce e disarciona il senso consueto generandone un altro ancora, liminare e illuminante.
Le ragioni per le quali in Belluscone il linguaggio coincide con l’indicibilità sono soprattutto tre. Perché ci sono termini i cui fonemi risultano, malgrado i reiterati tentativi, impronunciabili (folclore, per esempio, che si incarta in florcore, oppure incaprettato che diventa incrapettato); perché se ne ignora il senso (ibrido è un vocabolo che in certi casi può suscitare disorientamento, così come labiale); perché ci sono parole che non devono essere dette: è tollerabile alludere al loro significato facendo però sì che il significante che le veicola permanga silente, larvale, il fantasma di una parola (Lauricella, il cognome del boss, viene mormorato ma è senza suono: è una parola che si ascolta con gli occhi).
Se proviamo a pensare a Belluscone come a un prontuario di ortofonia ci rendiamo subito conto che la forma di ogni parola non è mai una, la pronuncia non può essere esatta perché è sempre incarnata, il senso di ogni vocabolo evolve e involve immergendosi nel grumo delle voci.
Una tra le conseguenze di tutto ciò è l’attivazione di un meccanismo centripeto e inclusivo.
Fin dal titolo, storpiando il cognome di chi, per citare quanto scrisse qualche anno fa lo storico Antonio Gibelli, «si è intestato un’epoca», Belluscone rinomina in chiave locale – nel palermitano che dissolve ogni asperità consonantica trasformando il grumo -erl- in una più semplice e immediata doppia elle – il fantasma nazionale che domina i sogni e gli incubi degli italiani da almeno vent’anni. È un addomesticamento – nel senso letterale di un ricondurre a casa – che, se è in generale una vocazione nazionale, in una città come Palermo si rivela attitudine costante declinabile in un buon numero di varianti.
Era l’inizio degli anni ’90, la famigerata «discesa in campo» non era ancora avvenuta, quando su un muro di via Ruzzolone, una stradina palermitana senza gloria parallela a via Sciuti, comparve una scritta a stampatello tracciata con lo spray azzurro: berlusconi vende panelle al borgo. Subito sotto, la firma: nsc, vale a dire quei Nuclei Sconvolti Clandestini, attivi soprattutto nella seconda metà degli anni ’80, che tra le altre cose giocavano a decontestualizzare, al contempo ricontestualizzandola in chiave cittadina, l’immagine di una serie di personaggi pubblici.
Far esistere la lingua come circostanza patibolare è qualcosa che rimanda alle origini del lavoro prima televisivo e poi cinematografico di Maresco. Quando, nel bianco e nero crepuscolare di Daniele Ciprì, la voce fuori campo di Maresco stringeva d’assedio il post-umano (in quel mai ripetuto progetto, Cinico Tv, che usava l’antropologia per compiere un lavoro d’ordine ontologico), la défaillance linguistica, nella maggior parte dei casi l’impossibilità stessa di una parola di prendere forma o di emendarsi dall’errore, affiorava dalle bocche di Pietro Giordano, di Paolo Alajmo e dei fratelli Abbate. Ogni sgretolamento della pronuncia era sottolineato dalla voce off di Maresco che, fingendo a volte di non aver capito, induceva il suo interlocutore a ripetere, così consolidando l’impossibilità stessa del linguaggio.
Si trattava di un dispositivo totale. Perché se parlare è patibolo, tacere non lo è da meno. Un’altra costante del lavoro di Maresco è infatti sempre consistita nell’usare il silenzio fuori campo come strumento di tensione: fin dai primi esperimenti sulla rete locale Tvm si percepiva che il frame dell’inquadratura non era soltanto visivo, qualcosa che si otteneva tramite la scelta e la calibratura di un’ottica, essendo determinato anche da quelle diverse qualità di silenzio – di volta in volta distinguibili l’una dall’altra – con cui Maresco fissava il suo interlocutore.
A qualcuno tutto ciò parve un’irrisione crudele e gratuita, lo scherno borghese nei confronti del sottoproletariato ignorante. Non fosse che quello di Maresco sembra essere sempre stato puro e semplice autolesionismo. L’inadeguatezza linguistica di Fortunato Cirrincione, di Enzo Castagna e di Ignazio Trevi, non è l’oggetto di un sadismo bensì lo strumento di un raffinato masochismo: la frusta con cui Maresco colpisce la sua – e la mia e la nostra – esistenza borghese.
In Belluscone è ancora una volta in scena quello che in Arruso (2000) Saverio D’Amico, il coscienzioso assistente dell’organizzatore cinematografico Enzo Castagna, definiva la lingua «palermitanesca» (in realtà, sempre coerentemente con l’abrasione delle erre, «palemmitanesca»). Questo itinerario – una via crucis sub specie linguistica – prevede una serie di tappe.
Nel succedersi delle interviste ci confrontiamo con forme di reticenza che generano cortocircuiti logici («Lei ha mai sentito parlare di neomelodici?», «No no no», «Eppure lei è un neomelodico», «Sì»), con interi processi di risignificazione (l’accordo pressoché unanime sul valore offensivo di «carabiniere»), col rimpianto della criminalità etica di un tempo («La mafia antica non uccideva le donne, non uccideva i bambini», precisa nostalgico l’impresario Ciccio Mira; «Ma uccideva», lo incalza Maresco). In Belluscone riconosciamo dimestichezza con termini che supponevamo inconsueti («pilastrato»), ascoltiamo constatazioni ricche di distinguo e anacoluti («La mafia secondo me è stata una bella storia… tra parentesi, interrogativo… esistita non è esistita non sono cose che io comunque mi interesso»), così come precisazioni appassionate e torrenziali («Io non ho mai detto no alla mafia, io ho portato sempre un saluto e un rispetto a tutti quanti, dai bambini dai sofferenti ai non vedenti ai bambini dell’Unicef ai detenuti…»), constatazioni di serena autarchia («Lo Stato: o c’è o non c’è è la stessa cosa», il tutto a rimare con un’intervista in cui Berlusconi dichiara di brindare a champagne per festeggiare l’assenza del governo), conclusioni ineccepibili («Non ne parliamo di mafia», «Parliamo di cose attuali») nonché orgogliose («Tu non la pronunci la parola mafia», «No no no, non esiste per me, per me non esiste niente, io sono alla luce del sole»).
Come si accennava, in diversi di questi frangenti la strategia espressiva prevalente è la reticenza, l’elusione, una laconicità così tanto collaudata da lasciarsi percepire come la struttura retorica di riferimento. In teoria l’unica eccezione dovrebbe essere rappresentata dall’intervista a Marcello Dell’Utri. Del resto con Dell’Utri ci spostiamo dal sottoproletariato alla borghesia e sarebbe dunque naturale presumere un modificarsi del codice. E invece no. L’evasività di Ciccio Mira, nonché le cautele e le paradossali precisazioni di Vittorio Ricciardi e di Erik, non differiscono nella sostanza dalla maniera ellittica – da Pizia delfica – di Dell’Utri. Certo, Mira e gli altri sono goffi e istintivi quanto Dell’Utri governa consapevolmente la sua riluttanza, tanto da dare l’impressione di poter giocare con quello stesso codice omertoso che per Mira è un automatismo, ma la cifra è quella, quello il formulario. Per entrambi arriva un momento in cui il discorso deve essere stemperato, diluito; occorre smarcarsi, far perdere le proprie tracce. Non solo, scopriamo in Belluscone, è possibile dire tacendo e tacere dicendo – attivando il canonico meccanismo per il quale certe questioni sono il de cuius, ciò di cui non si può parlare: durante l’intervista a Dell’Utri, a condurre la vaghezza verso un punto di non ritorno interviene anche un guastoaccidentale del canale audio che rende le risposte del senatore indecifrabili.
Tutto ciò sembra utile a ribadire che da una ventina d’anni a questa parte – se volessimo datare con qualche precisione potremmo individuare il momento in cui l’indignazione più autentica e attiva che segue le stragi del 1992 poco alla volta si istituzionalizza, procede per simbologie e simulacri, si risolve in smobilitazione – Palermo è stata la scena di un fenomeno per il quale le forme del sottoproletariato cittadino e quelle della borghesia si sono incontrate e reciprocamente accolte. Compenetrate. In gran parte dissolte le une nelle altre. Sono stati condivisi stili, inclinazioni, costumi, consumi. Si è condivisa una lingua. Sottoproletariato urbano e borghesia hanno dato luogo a un crossing-over di materiali culminato in una complicità che nei fatti è una vera e propria collusione.
Tutto ciò ha generato un mostro, un blocco sociale e culturale refrattario a una modernizzazione che non sia solo e sempre di superficie. Un mostro che però non è e non è mai stato casuale o inconseguente, svolgendo invece una funzione ben precisa.
La confusione tra una borghesia che negli anni successivi al ’92 sembrava dovesse (e per una volta volesse e forse persino potesse) assumersi la responsabilità di interpretare un ruolo guida – di traino, di ariete, di punto di coagulo – e un sottoproletariato che in quegli anni appariva meno coriaceo e omogeneo e dunque per una volta permeabile a condividere una metamorfosi, questa perfetta tetragona connivenza ha creato una specie di macroclasse incessantemente impegnata a inglobare tutto ciò che incontra, un tuttodentro socioculturale famelico e vischioso (di «viscosità» della storia palermitana parlava già Sciascia in La Sicilia come metafora).
Il primo effetto di questo nuovo organismo sociale è stato quello di cancellare la possibilità stessa di un fuori(inteso come un luogo capace di essere davvero culturalmente altro). Lo ha reso impensabile, oppure lo ha fatto coincidere con qualcosa di minimo, una nicchia sottilissima, l’enclave virtuosa che resistendo trasforma – suo malgrado? – la propria resistenza in valore in sé (nient’altro che un’ennesima compensazione simbolica).Belluscone è allora la parola d’ordine del tuttodentro, la palermitanizzazione non solo di un cognome ma di tutto ciò che al tuttodentro medesimo potrebbe opporsi, l’emblema di una reductio ad unum del mondo intero ininterrottamente e inevitabilmente agita da un milieu socioculturale che, potendo esistere solo a condizione di cancellare la percezione di un’alternativa, non fa altro che assimilare e neutralizzare, incorporando in un unico conglomerato tutto ciò che potrebbe essere differenza. Si tratta, rispetto a Palermo, di un impulso radicato che ne ha determinato e ne determina la storia; qualcosa di cui la città non è vittima bensì artefice. Dissolvere le difformità, assorbire, egemonizzare, bellusconizzare è un’opera al nero preferibile al trauma di qualsiasi cambiamento reale.
Il secondo effetto della confusione tra borghesia e sottoproletariato consiste nel favorire i processi di smobilitazione civile. Quando davanti alla domanda su che cosa significasse vivere a Palermo Enzo Sellerio rispose lapidariamente «Io non vivo a Palermo, io vivo a casa mia», ciò che stava esprimendo era la consapevolezza che la smobilitazione civile, a Palermo, non era là da venire bensì già data e in atto: avvenuta. Se misurata dal punto di vista di una cittadinanza non semplicemente attiva ma efficace, non meramente formale ma in grado di produrre cambiamenti, Palermo è da tempo una città disabitata (e ancora una volta, nel mettere in scena una città a dir poco disidratata, Maresco tutto ciò lo avvertiva fin dai tempi di Cinico Tv). A Palermo si vive in quegli spazi controllabili e autoreferenziali che sono le proprie abitazioni, rinunciando a intendere la città come un’esperienza complessa dove privato e pubblico coesistono in un continuo confronto dialettico, così producendo un’occasione di conoscenza.
In una rinuncia di questo genere non c’è nessun nichilismo, semmai ha più senso pensare a una strategia di adattamento a un ambiente ben preciso. Se si prova ad abitare Palermo da cittadini, quel particolare ecosistema si rivelerà un giorno dopo l’altro inospitale e dunque insostenibile. Certe aspettative, così come azioni in teoria non virtuose ma elementari, verranno sistematicamente frustrate, l’amarezza e la costipazione della rabbia diverranno uno stato d’animo costante. Occorrerà allora indebolire le proprie facoltà critiche, ridimensionare l’orizzonte d’attesa, trovare un modo per sorridere della rovina, abituarsi a intendere lo squallore come una forma di folclore (farne, alla lettera, florcore).
A Palermo, la collusione tra borghesia e sottoproletariato serve dunque a disinnescare la percezione del diritto a una cittadinanza reale. Serve a ridicolizzare ogni ipotesi di cambiamento, a farne parodia. Da questo rimescolamento di materiali è però fatto salvo una specie di scrupolo, l’esigenza di uno scarto, quella frattura che durante la proiezione di Belluscone mette la borghesia palermitana nelle condizioni di riconoscere il grottesco dei vari strafalcioni.
Durante tutto il film la borghesia palermitana sorride, ride, commenta divertita. Definisce, una risata dopo l’altra, una distanza estetica e cognitiva che immagina sostanziale. Sorride, ride, si sente rassicurata. Assolta. Noi – è la certezza che scorre in filigrana per la sala – non siamo loro. E non siamo loro per la semplice ragione che noi riconosciamo i loro spropositi linguistici e di senso, ne avvertiamo il tragicomico.
Poi la tonalità narrativa del film inclina verso il basso: il cantante neomelodico Erik porta una rosa sulla tomba di Stefano Bontate, Tatti Sanguineti rinuncia a ritrovare Maresco (quasi presagendo che questa protratta latitanza realizza in via definitiva la condizione fuori campo di Maresco medesimo) e ipotizza, per il film che il regista palermitano intendeva girare, il titolo Il colpo di grazia.
Quando ancora sullo schermo compare Matteo Renzi che ospite ad Amici di Maria De Filippi dice «È molto bello ma anche molto difficile parlare di speranza», viene in mente Pasolini che intervistato nel 1971 da Enzo Biagi diceva: «La parola speranza è cancellata completamente dal mio vocabolario» (una frase – insieme origine e meta della loro sensibilità – con cui Ciprì&Maresco concludevano Arruso).
Poi Belluscone finisce e mentre passano i titoli di coda e la gente si alza per uscire, su metà schermo cominciano a scorrere una serie di interviste. Ci si trattiene in sala ancora un momento, si guarda, si ascolta. Stavolta davanti all’obiettivo c’è la borghesia palermitana tra i trenta e i quarant’anni – quella più brillante e sorridente, blandamente duttile, moderatamente sagace – che da qualche parte fuori e dentro un locale risponde a una batteria di domande sulla trattativa Stato-mafia, sul 23 maggio e sul 19 luglio 1992. Le risposte sono battute e risate, obiezioni complessive («Ma di che stiamo parlando?»), esotismi («No entiendo»), rilievi autobiografici («Il 19 luglio 1992 mi sono sposato»), fino a un «Non lo so, non lo so davvero» che deflagrando salda tra loro le parti del film e chiarisce in che termini è nel tempo mutata quella specifica esperienza che a Palermo è il non sapere. Perché a quel «Non lo so, non lo so davvero» crediamo senza il minimo dubbio. Sappiamo che non c’è nessuna strategia elusiva, nessuna finzione, neppure un grammo di reticenza intenzionale, nulla del codice istintivo di Ciccio Mira né della indeterminatezza sardonica di Marcello Dell’Utri. Il vecchio cifrario omertoso non è più qui perché qui, adesso, c’è altro.
La borghesia palermitana – ed è in questo che la disperazione di Franco Maresco si rivela un indispensabile autolesionismo e ci costringe finalmente alla vergogna – fonda se stessa, tutta la propria esistenza contemporanea, su un oblio perfetto: delle cose, della Storia, soprattutto di sé medesima. Su un avverbio,davvero, che nel corso degli anni ha saputo rendere drammaticamente autentico.
Ciò che ne discende è una materia compatta e impenetrabile. Virale. Il rumore costante della smobilitazione. Il tuttodentro che procede, si nutre, si dilata. La nostra, palemmitanesca, opera al nero. Il nostro, autoinferto, colpo di grazia.
Lo Straniero, n 173