LA GIORNATA DELLA MEMORIA HA 15 ANNI, MA SEMBRA GIÀ VECCHIA

di Luca Peretti

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Quindici anni dopo, è tempo di bilanci. Il Giorno della Memoria (d’ora in poi, GdM) fu celebrato per la prima volta nel 2001. Qui proviamo a fare i conti con alcune questioni aperte, insieme ad un gruppo eterogeneo di studiosi, rappresentanti delle istituzioni ed educatori, che abbiamo incontrato o raggiunto telefonicamente e via email. Cosa è cambiato nella memorialistica della Shoah in questi anni? Come si lega a eventi contemporanei, ai cambiamenti globali, a nuove e diverse istanze memoriali? E come dialoga, se lo fa, con stermini contemporanei e ad altri genocidi?

 

Eventi, commemorazioni, celebrazioni

I nostri intervistati tendono a pensare che si possa parlare di un bilancio positivo per il GdM, ma gli interrogativi e le questioni aperte sono tantissime. Francesca Romana Recchia Luciani, docente di Storia della filosofia presso l’Università di Bari e autrice di La Shoah spiegata ai ragazzi, nota come sì, il bilancio sia sostanzialmente positivo, ma con “alcune ombre che col tempo vanno infittendosi”. Secondo la studiosa, “per un verso ha avuto il merito di costringere gli insegnanti ad affrontare, almeno parzialmente, l’epoca della Seconda guerra mondiale, spesso tralasciata per ritardi nell’attuazione dei programmi, per l’altro però ha prodotto una vera e propria inflazione memoriale, un ‘eventismo’ d’occasione che nuoce alle ragioni etiche della sua stessa istituzione e che rischia di generare il proliferare di iniziative discutibili, quando non di abusi e banalizzazioni”. E se è vero, come accenna Irene Baratta, professoressa di Storia e filosofia in un liceo romano e per anni collaboratrice della Fondazione Museo della Shoah, che “determinati professori negano ancora la Shoah, o non l’affrontano perché la riconducono al problema tra Israele e Palestina”, l’eccessiva concentrazione su eventi, celebrazioni, è un problema menzionato da molti. Per Ruggero Gabbai, regista di documentari, tra cui due sulla Shoah, e consigliere comunale a Milano, bisogna insistere sulla dimensione del racconto, e quindi della cultura e dell’arte, invece che sulle “celebrazioni, i discorsi e le frasi un po’ fatte che abbiamo sentito tantissime volte… la celebrazione diventa spesso autocelebrativa, anche un po’ stucchevole da un punto di vista retorico”. Come evitare la retorica e le grandi celebrazioni? Per Robert S.C. Gordon, docente all’Università di Cambridge e autore di Scolpitelo nei cuori. L’Olocausto nella cultura italiana (1944-2010), questo tipo di celebrazioni stanno comunque in gran parte sparendo: “Sembra essere passato il tempo dei progetti imponenti dedicati all’Olocausto – come grandi nuovi musei e memoriali, e incontri internazionali di capi di stato in alte cerimonie. Gli imperativi del ventunesimo secolo in relazione alla memoria pubblica dell’Olocausto hanno a che fare col far conoscere questi eventi, e farlo anche ad un livello locale. Sono quindi a favore più che altro di eventi sui territori, relativamente piccoli, accompagnati da iniziative culturali e pedagogiche”.

Per i giovani, ma non solo

Sicuramente importante è capire a chi soprattutto bisogni rivolgersi, nell’organizzazione di eventi e iniziative per quella che è ormai diventata la “settimana della memoria” che, come ha osservato l’assessore alla cultura della Comunità Ebraica di Roma Giorgia Calò, “ha una responsabilità prima di tutto educativa”, in ottica della quale “la testimonianza diretta dei sopravvissuti assume un compito storico ed educativo fondamentale”. Mentre è più sfumato Andrea Minuz, docente di cinema alla Sapienza di Roma, autore di La Shoah e la cultura visuale. Cinema, memoria, spazio pubblico: “In questi casi si dice sempre che bisogna organizzare iniziative ‘dirette ai più giovani’, ma io non lo so. Mi sembra più importante che le iniziative siano costruite nella prospettiva di una conoscenza storica, non solo memoriale. La memoria fa leva su una dimensione emotiva. La storia no, o almeno non dovrebbe. La memoria ha senz’altro avuto una funzione decisiva nella costruzione di una cultura della Shoah, ma la progressiva scomparsa dei testimoni ci invita a far leva sulla Storia. Da questo punto di vista, già nel nome la giornata della memoria risulta un po’ obsoleta”. Un rischio di obsolescenza che c’è anche in un altro ambito: secondo Gordon infatti, “il Giorno della Memoria ha dentro di se una obsolescenza: il tempo arriverà in cui non avrà più senso ricordare un evento definito in senso stretto come l’Olocausto, proprio come i memoriali della Prima Guerra Mondiale sono stati accantonati fino alla recente rivitalizzazione per il Centenario. Ma non credo che siamo ancora alla fase della obsolescenza”.

Quali memorie?

Questo rischio per alcuni si evita esattamente cercando di includere altre memorie, la commemorazione di altri genocidi o eventi storici particolarmente atroci, o anche legando la Shoah a tematiche del presente (razzismo, immigrazione, terrorismo, etc.). Gabbai sostiene che, pur nel rispetto importante delle specificità, è legittimo che “quando si parla di Shoah si possa parlare di altri genocidi che sono accaduti nel mondo. Anzi, è importante che i ragazzi capiscano che è una cosa che può succedere ancora, far capire che i fatti storici non sono slegati l’uno all’altro e che al centro c’è sempre l’essere umano che, a determinate condizioni, se mancano gli anticorpi, può diventare un boia ed un nazista. Questo lo vediamo anche oggi con l’Isis (senza, assolutamente, fare paragoni tra l’Isis e il nazismo)”.

Su questo Calò ricorda Primo Levi, secondo cui “quelli che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo”, e sottolinea come questo valga “per ogni sterminio, genocidio ed attacco all’umanità per mano di altri uomini. Credo che nessuna tragedia sia paragonabile ad un’altra, ma tutte hanno bisogno di essere ricordate per la loro devastante specificità”. E Gordon, a sua volta, ci ricorda come la memoria sia per definizione fluida, ed evolva col tempo: “La memoria collettiva – o meglio i diversi fenomeni culturali che vengono etichettati in questo modo – è sempre stata e sempre sarà permeabile. Per me non ha senso trattare la “memoria ebraica” come un’entità che opera secondo la sua propria agency, in competizione aggressiva con altre forme di memoria. La fascinazione per il genocidio ebraico è stato il sintomo di un particolare momento storico-culturale (diciamo dal 1989 in poi) e il declino per questa fascinazione va letto come parte di un altro momento storico, o anche dovuto semplicemente al passare del tempo, e infine a sintomatologie complesse di come l’Europa vede oggi il suo passato, presente, e futuro. Mentre va mantenuto uno spazio per rituali della memoria specifici per le vittime ebraiche, le connessioni trasversali ad altri genocidi e eventi storici comparabili sono legati e devono emergere dal GdM in futuro”. Minuz invece sostiene che sia bene mantenere il GdM come un giorno della memoria dello sterminio del popolo ebraico: l’inclusione di altri eventi sarebbe, infatti, “una delle tante derive del politically correct da cui dovremmo prendere le distanze. Se tutti i genocidi sono uguali vuol dire che non ci interessa la storia, ma una confusa richiesta di giustizia universale. È una deriva che mi preoccupa, soprattutto nel caso delle ‘attualizzazioni’ della Shoah e dei vari tentativi di leggerlo al presente, innescando analogie più o meno pretestuose. Ormai nei media si evoca la Shoah per l’aborto, per le sperimentazioni sugli animali e ovviamente per le azioni militari di Israele. Queste letture sono un ottimo esempio dello svuotamento di significati della giornata della memoria”, e assumono piuttosto “una funzione tattica sin troppo evidente che sconfina nella propaganda politica, una propaganda che curiosamente può usare la retorica della Shoah in funzione anti-israeliana”.

Minuz quindi evoca un mantenimento di una “specificità ebraica della Shoah, una specificità storica, che si è progressivamente dispersa dentro una generica ‘cultura dell’Olocausto’. Questo anche perché “la persecuzione degli ebrei durante la seconda guerra mondiale non è che l’ennesimo episodio di una storia millenaria, cosa che non possiamo affermare per le altre azioni se non appellandoci a una generica ‘condanna del diverso o del più debole’. La Shoah reclama una specificità che è assurdo rimuovere o diluire nella generica condanna del crimine nazista”.

Storia d’Italia e storia d’Europa

Uno degli interrogativi che rimane aperto è come si possa interpretare la storia d’Europa alla luce della memoria della Shoah, e quale spazio la Shoah vada ad assumere all’interno di questa storia: se un incidente, una parte di una storia fatta anche di stermini e persecuzioni, se insomma quella cosa che chiamiamo (spesso senza definirla) Europa abbia o meno gli anticorpi contro tali degenerazioni. Su questo Baratta sottolinea come la Shoah vada inserita, specie quando la si insegna a scuola, in un percorso di studio della storia del Novecento, e che la Shoah “è stato un collasso che è avvenuto in Europa all’interno di uno stato che culturalmente aveva dato dei risultati splendidi. È una ferita e un collasso che riguarda la storia di tutti noi, non solo lo sterminio degli ebrei e va quindi considerata all’interno di tutta la cultura che si era formata in Germania”. “Il Novecento – continua Calò – è stato il palcoscenico di numerose guerre, dal genocidio armeno alla guerra dei Balcani, anche questa ispirata al principio di pulizia etnica. In questo senso educare la Memoria è un principio fondamentale ma bisogna stare attenti a non confondere le memorie e i lutti”.

Come andare avanti insomma? Come evitare che il GdM si riduca ad una fossilizzazione stanca e una ripetizione di formule? Le domande, come spesso capita quando si parla di questi temi, sono più delle risposte. Per Gordon, “a questo punto la funzione di questo Giorno, in termini civici, non è tanto memoriale o funeraria ma ha anche fare con la traduzione, cioè con la proiezione dell’Olocausto nel presente e nel futuro, nazionale, europeo, globale. Questo non implica un gioco delle comparazioni”. Un gioco che rischia di essere perdente: “poiché – sostiene Recchia Luciani – se Auschwitz è tutto, il rischio è che Auschwitz si riduca a nulla. Siamo certi che la storia comparativa abbia un senso che non sia solo quello di educare in maniera molto, troppo generica e poco incisiva al rispetto nei confronti di tutti? Non è il caso di pensare che si impari di più e meglio approfondendo le vicende storiche piuttosto che equiparandole senza rispettare tempi e luoghi?

Dal sito Gli stati generali, 24 gennaio 2016