L'Orrore della bomba atomica, una lotta che non finirà mai
di Günther Anders*
«Supponiamo che i nostri sforzi siano stati coronati da successo, che i fini per cui lottiamo da anni siano stati raggiunti; che le cosiddette esplosioni sperimentali e i voli di prova siano stati sospesi; che la produzione di armi atomiche sia cessata, le armi esistenti disinnescate, le basi dei missili smobilitate; e che un controllo reciproco impedisca che la minaccia prosegua nascostamente; che cosa avremo ottenuto?
Senza dubbio molto. Non dobbiamo desistere un istante dalla lotta per questi obbiettivi. Ma non ci facciamo illusioni: l’essenziale non sarebbe stato ancora raggiunto. Non arriveremo mai al punto di poter incrociare le braccia e di poter dire, con un sospiro di sollievo, che abbiamo ripristinato lo stato anteriore ad Hiroshima o alla morte di Kuboyama. Poiché ciò che è stato, anche una volta abolito, non è più come se non fosse stato. L’accaduto è accaduto in modo irrevocabile, proprio perché lo stesso evento può essere sempre richiamato o ripetuto.
Va da sé che viviamo tutti nella speranza di ripristinare l’antica condizione. E i nostri contemporanei che non condividono questo desiderio ci sembrano affetti da cecità d’animo».
Ma purtroppo ci sono sentimenti che sono in netto contrasto con la realtà attuale; in un contrasto così crudo e irrimediabile che ce li dobbiamo vietare assolutamente. E a questi sentimenti appartiene, purtroppo, anche la nostra nostalgia della belle époque preatomica. Essa contraddice alla nostra situazione attuale, che non consiste in ciò che abbiamo o facciamo (e per noi intendo l’umanità intera), ma in ciò che possiamo avere e possiamo fare».
Per quanto grande la potenza dell’uomo, c’è una cosa che egli non può fare: ritornare sulle proprie capacità. E per quanto grande la sua abilità di apprendere, c’è una cosa che egli non può apprendere: a disapprendere ciò che sa. Può abolire le armi atomiche che possiede; ma non può disfarsi della conoscenza del modo di produrle. La situazione tecnica in cui l’uomo si trova è definita non solo da ciò che egli domina, ma anche da ciò che è incapace di non dominare. Anche voi che non siete fisici (e non lo sono nemmeno io) sapete che la capacità di produrre armi atomiche non è una capacità isolata; che chi sa produrre reattori pacifici è sempre in grado di produrre mezzi atomici di distruzione. Questi ultimi - anche se i loro effetti potenziali superano di gran lunga tutti quelli che possiamo produrre in altro modo - fanno pur sempre parte del nostro patrimonio tecnico e scientifico, di cui costituiscono una specialità. E poiché questo patrimonio è irrevocabile, lo è anche questa specialità. In altri termini: anche se non ci fossero più armi atomiche, esplosioni sperimentali, voli di prova, rampe di lancio e paesi impegnati nella produzione di queste armi - il pericolo non sarebbe scomparso. Poiché la momentanea soppressione dei minacciosi ordigni non implicherebbe quella della capacità di fabbricarli, e tanto meno della tentazione di diventare onnipotenti per loro mezzo, ci troveremo sempre (per tutti i tempi dei tempi) nella situazione apocalittica, e cioè nella situazione in cui l’umanità potrebbe perire di mano propria.
Vedete dunque che il compito a cui ci troviamo continuamente di fronte, pur richiedendo ad ogni istante un massimo di saggezza e cautela politica, non è di quelli che si lasciano risolvere con misure puramente politiche (e tanto meno con mezzi puramente tecnici). Le misure da prendere appartengono a un’altra classe: poiché devono distoglierci dal fare ciò che possiamo fare; e dal produrre ordigni di cui conosciamo (e non possiamo dimenticare) il modo in cui si producono. Ma ciò significa che la trasformazione dell’uomo dovrà essere una trasformazione della sua morale. La sua coscienza di trovarsi di fronte a un tabù assoluto dovrà gettare radici così profonde in ciascuno di noi miliardi di esseri umani, che chiunque prenda in esame la possibilità di servirsi di questi mezzi per i suoi fini politici si trovi subito di fronte all’indignazione dell’umanità intera.
C’è una formula terribile, e terribilmente ambigua, che è stata coniata dall’illustre fisico von Weizsäcker: "Vivere con la bomba". Possiamo fare a meno di chiederci (qui) che cosa Weizsäcker abbia voluto dire con questa formula; la sua posizione non è chiara, poiché sebbene egli faccia parte del gruppo dei firmatari del manifesto di Gottinga, meritamente famosi per i loro scrupoli e il loro coraggio civile, ha però creato questa formula nel momento in cui la discussione sul riarmo atomico dell’esercito federale toccava il suo apice; e ha dato così, forse, un aiuto indiretto ai fautori del riarmo. Non importa: la formula, se è intesa rettamente, ha una verità profonda. Poiché rettamente intesa significa che non dobbiamo illuderci, neppure per un momento, di poter vivere " senza bomba"; neppure nel momento finalmente arrivato in cui non ci saranno più bombe.
So bene che quel che vi dico è poco consolante. Chi dedica, come noi, tutte le forze al conseguimento di una meta, lo fa nella speranza che essa sia raggiunta, un giorno, una volta per tutte. Se vi tolgo questa speranza, la speranza della definitività, è perché possiate vedere senza illusioni, e restare bene in chiaro del fatto, che la lotta che abbiamo intrapreso da qualche anno, e in cui ci troviamo attualmente, è una lotta che non finirà mai. Ogni giorno guadagnato sarà un giorno guadagnato; ma non sarà mai una garanzia per il giorno successivo."A bomba" non arriveremo mai.
Abbiamo quindi davanti a noi l’infinito dell’incertezza. E il nostro compito senza fine consisterà nel far sì che almeno questa incertezza non abbia mai fine».
Ancora una volta: non vi espongo questo concetto per togliervi la voglia di combattere; o perché ritenga la nostra lotta vana. Se così fosse, non sarei venuto fin qui dall’Europa. Se lo ribadisco, invece, è perché la nostra lotta sarebbe condannata all’insuccesso se ne valutassimo male il carattere.Questa lotta non è solo il nostro compito, o quello della nostra generazione; ma quello di tutti gli uomini d’ora in poi. È quindi il nostro destino. Dovremo lasciare questa volontà in eredità ai nostri figli (se ci saranno lasciati dei figli); ed essi dovranno lasciarla a loro volta ai figli che saranno loro lasciati. Vincere è necessario, ma non sarà mai definitivo; chi perdesse, invece, perderebbe per sempre. Per i suoi predecessori, poiché, dopo la sua sconfitta, non ci sarà più nulla a testimoniare di loro; e per i suoi successori, perché, dopo la sua sconfitta, non ne avrà più».
Amici, so come sia scortese, per l’ospite di un popolo così gentile e ospitale, parlare in termini così paurosi e così brutali. Vi prego di scusarmi. Ma purtroppo esistono situazioni in cui restare cortesi sarebbe una prova di irresponsabilità. Non è colpa mia, né vostra, se ci troviamo in una situazione del genere. Ciò che ci unisce è il dolore di essere costretti ad essere scortesi. Vi ringrazio».
Tokio 1958. Dal discorso tenuto in una scuola per l’istruzione degli adulti. Tratto da "Diario di Hiroshima e Nagasaki"
* Fondatore del movimento antinucleare.