Riprendiamoci lo studio della Storia
di Simonetta Fiore
Il passato non è più materia di riflessione. Le università perdono docenti e studenti. Il danno per la cultura democratica dei cittadini è incalcolabile Ecco perché il ministro deve reintrodurre questa disciplina all’esame di maturità
Proviamo a immaginare un’Italia senza la storia del Rinascimento. No, non è un esercizio di storia controfattuale, ma la fotografia di un Paese in cui si smetta di studiare la storia moderna, più o meno quell’arco temporale che va dalla scoperta dell’America al Congresso di Vienna. Ancora un piccolo sforzo: proviamo a immaginare che nelle università italiane non si insegnino più la Riforma o la Controriforma, la Rivoluzione francese o quella americana, e che in aula sia più facile imbattersi in un marziano che in un erede di Franco Venturi o Delio Cantimori.
Un romanzo distopico? No. È la previsione formulata da Andrea Zannini, ordinario di storia moderna a Udine: «Se la diminuzione degli storici dell’età moderna continua con il ritmo degli ultimi anni, nel 2031 non ci sarà più un docente in questa disciplina». Tra 22 anni, praticamente domani.
La storia a rischio di estinzione?
Un segnale della sua irrilevanza è arrivato quattro mesi fa con la decisione del Miur di cancellare la traccia di storia nella prima prova scritta della maturità. Nella formazione degli studenti liceali – sancisce in sostanza il ministero dell’Istruzione e della ricerca – lo studio del passato perde centralità. Non è più una bussola prioritaria nel maremoto della contemporaneità. E all’università? Qui il furto della storia rischia di ingigantirsi. Tra docenti e ricercatori, negli ultimi due decenni c’è stato un tracollo di insegnamenti storici. I medievisti sono oggi 156: erano 240 nel 2001. I modernisti scendono da 368 a 225, mentre nello stesso periodo la storia contemporanea ha perso 89 professori (da 462 a 373). «Ci siamo ridotti a una riserva indiana», sintetizza Emilio Gentile, uno dei grandi maestri di storia ora in pensione. «Quando arrivai alla Sapienza negli anni Ottanta, a Scienze Politiche c’erano otto cattedre di Storia contemporanea, tra cui quella di De Felice, Scoppola e De Rosa. Quando sono venuto via, nel 2011, ne era rimasta una sola». La contrazione è dovuta all’impoverimento delle risorse finanziarie, che vengono dirottate sui corsi di laurea più affollati come Economia ed Ingegneria. Da qui un mutamento di architettura complessiva che dal 2001 ha visto crescere a dismisura docenti economisti (da 3.896 a 4.862) e ingegneri industriali (da 4.340 a 5.530) a svantaggio di molte discipline umanistiche e soprattutto degli storici che complessivamente calano da 1070 a 754. Ma che cosa significa in termini civili e culturali la perdita di prestigio della storia? E quali conseguenze può provocare in un Paese invecchiato che già tende a guardare al passato in chiave nostalgica o mitizzata?
Se lo domandano anche negli Stati Uniti, dove il New Yorker registra un fenomeno analogo. In The Decline of Historical Thinking Eric Alterman racconta che, ad eccezione di cittadelle blasonate come Yale comunque garanti di un brillante futuro professionale, nei campus americani la storia tende a scivolare tra le materie neglette, a vantaggio di scienze, tecnologia, ingegneria, matematica. «Questo è comprensibile», ci spiega dal suo studio di Harvard il professor Charles S. Maier, decano degli storici americani. «La preoccupazione dei ragazzi – e soprattutto dei genitori che pagano i corsi – è di assicurarsi una carriera remunerativa, cosa che gli studi umanistici non sempre ti possono garantire». E se si preoccupano negli Stati Uniti, figuriamoci in un Paese in recessione come il nostro.
Ma l’ansia di un buon impiego da parte degli studenti basta a spiegare la marginalizzazione della storia? Sarà il caso di entrare in un territorio insidioso con una domanda un po’ antipatica: i professori sono ancora capaci di rendere affascinante lo studio del passato? Giovanni Gozzini, ordinario di Storia della globalizzazione a Siena e autore di fortunati manuali, non si sottrae alla questione. «Molti colleghi si comportano come le oche del Campidoglio, ma pochi hanno realmente maturato una svolta sul piano didattico: la storia dovrebbe essere trattata come una scienza applicata, non più come cenacolo per pochi eletti. Chi erano i barbari, i migranti di allora? E la persecuzione novecentesca cosa ha significato per la vita delle famiglie ebree? E non è vero che gli studenti siano più ignoranti: bisogna trovare le chiavi per portarli dalla tua parte». Anche Andrea Graziosi, lo storico che ha presieduto l’Agenzia della valutazione universitaria fino al 2018, pone il problema della qualità dell’insegnamento: «La nostra storiografia non è riuscita a reggere il passaggio dalle storie nazionali alle storie globali, come è successo altrove. E per ragazzi che vanno su Netflix e viaggiano per il mondo, non sono più sopportabili le lezioni sul Risorgimento in una prospettiva solo italiana».
Fin qui è chiaro. La storia ha perso potere accademico perché non garantisce carriere brillanti. E perché non sempre è insegnata in modo accattivante e aggiornato.
Ma questa marginalità ne riflette un’altra, già testimoniata dalle criticabili scelte del nostro ministero sui temi della maturità: ovvero la crisi della funzione sociale della storia. Il professor Maier la sintetizza in questo modo: «Un tempo la conoscenza storica era, se non proprio la via maestra, almeno una sorta di bussola con cui il ceto colto formulava il proprio giudizio sullacontemporaneità, sulle leadership e sui processi. Oggi la storia non esercita più lo stesso ruolo». Al suo posto esiste una generica curiosità per il passato che però viene risolta spesso in chiave di intrattenimento: programmi televisivi, performance, romanzi che anche in Italia hanno grande successo. Ma c’è una differenza ragguardevole – ammonisce Gentile – tra una consapevolezza storica strutturata e il puro divertimento. Lo studioso ci porta un passo più avanti nella riflessione: secondo Gentile è in discussione la storicità come dimensione del mondo e dell’uomo, e questa crisi è legata al declino della civiltà europea. «È venuta meno la consapevolezza che il senso della storia non è stato sempre presente in tutte le civiltà ma è una conoscenza scientifica del passato che appartiene alla cultura europea fin dalla metà del Settecento. Se si perde questa consapevolezza, si perde anche il senso di cosa sia stata l’Europa per il resto del mondo. E ci si condanna a una marginalità coltivata attraverso micronazionalismi».
Ma se provassimo a rovesciare il ragionamento? Il declino del pensiero storico non potrebbe essere interpretato attraverso la crisi di una narrazione che mette sempre al centro l’Occidente?
«Non direi», risponde dal suo studio di Oxford Peter Burke, autore di importanti saggi di storia culturale della conoscenza.
«Alla crisi dell’egemonia occidentale l’ultima generazione di storici ha risposto allargando la prospettiva al resto del mondo».
Quindi, se non è stato uno sguardo eccessivamente eurocentrico, che cosa ha contribuito a minare le fondamenta della disciplina? Il professor Maier invita a riflettere su un fenomeno ben esemplificato dalle leadership politiche italiana e statunitense. «Mi riferisco alla rivendicazione crescente secondo cui non esiste una verità storica, ma una verità sempre relativa e facilmente falsificabile.
Naturalmente i racconti storici hanno sempre una prospettiva particolare e talvolta di parte. Ma ci sono storie buone e storie cattive. E la conoscenza storica richiede passione e determinazione nell’avvicinarsi il più possibile alla verità. Purtroppo i nostri mass media, troppo spesso i social media, e certamente i nostri rispettivi demagoghi spesso sviliscono queste premesse».
Le conseguenze civili non sono di poco conto. Chi ignora la storia è capace di svolgere un esercizio pieno della cittadinanza? «Una crisi internazionale del sapere storico potrebbe rappresentare un serio pericolo per le generazioni future di elettori», interviene Burke. E forse è in gioco il modo stesso di organizzare il pensiero, un tema che ha a che fare con la democrazia. «Un tempo», rileva Maier, «la struttura della conoscenza si articolava intorno a un racconto di eventi disposti in una sequenza temporale, mentre oggi la formula che ci permette di anticipare il futuro è un algoritmo. Riuscirà la storia a sopravvivere all’algoritmo?». Per evitare il naufragio, non ci resta che rimetterci a studiare il passato, anche per la prova di maturità.
Anche perché «senza conoscenza della storia» sarà difficile «cogliere il senso del cambiamento». Ma i vertici ministeriali che decidono le sorti delle discipline avranno mai letto Marc Bloch? Anche questa è una domanda aperta.
La Repubblica 22.02.2019