Pietre d'inciampo. La cura della memoria che interroga tutti
di Lia Tagliacozzo
Le Stolpersteine sono piccoli sanpietrini ricoperti di bronzo con incisi il nome, la data di nascita, la data e il luogo di morte, Auschwitz piuttosto che Mauthausen o qualcuno degli altri campi della morte. A realizzarli è l’artista tedesco Gunter Demnig in un progetto che coinvolge tutta Europa, dedicato alle vittime delle persecuzioni religiose, politiche e razziali del nazismo. Nei giorni scorsi a Torino ne sono state vandalizzate due dedicate a due vittime della Shoah – Franco Tedeschi e Virginia Montalcini – poste all’ingresso del Liceo D’Azeglio di cui i due erano studenti. E che è lo stesso dove ha insegnato Augusto Monti formando alunni come Pavese, Bobbio, Mila, Ginzburg, Einaudi e tanti altri antifascisti.
SOPRA E ACCANTO alle pietre di inciampo un brutto adesivo con una fiamma tricolore e la scritta «Difendi Torino». I responsabili di Aliud – i firmatari dell’organizzazione di destra – hanno preso le distanze, gli studenti hanno denunciato un clima intimidatorio e i genitori hanno scritto lettere di protesta. Ma la vandalizzazione delle pietre di inciampo è tutt’altro che una novità. Diffuse sul territorio, minute, quasi invisibili a chi non vi faccia «inciampare l’attenzione» sono esposte a graffi, sfreghi di vernice, addirittura ad asportazione dai marciapiedi dove sono state collocate in pose in opera che diventano cerimonie collettive. È proprio la loro caratteristica di grande pervasività che le rende tanto vulnerabili: «Perché gli Stolpersteine fanno così paura da essere profanati, imbrattati, divelti, rubati, distrutti? – si domanda Adachiara Zevi, presidente di Arteinmemoria referente delle iniziative di Demnig in Italia – Sostanzialmente perché non sono un monumento “gestibile”, in un luogo deputato, regolato da orari di visita, permessi e autorizzazioni».
La diffusione sul territorio ne demanda la cura ai singoli cittadini, sono loro che li lucidano – a volte il portiere, altre un singolo condomino – e che li mantengono vivi. Altre volte sono trascurati e abbandonati. Il loro stato di cura rivela lo stato della memoria del mondo – e non solo del suolo pubblico – in cui sono incastonati.
«VIVONO IN MEZZO A NOI – prosegue Zevi – si appalesano all’improvviso, insidiano ogni volontà di rimozione, ci costringono quotidianamente a ricordare cosa è accaduto in quel palazzo, in quella via, a quei vicini di casa». Costringono a farsi domande. «Perché li hanno portati via – insiste Zevi – Cosa hanno fatto? Dove li hanno portati? Perché non sono tornati? E, soprattutto, se fossimo stati al loro posto, cosa avemmo fatto? Li avremmo nascosti o avremmo fatto finta di niente? Sono interrogativi inquietanti che vietano ogni indifferenza».
La posa delle prime pietre d’inciampo – dove l’incespicare è quello della memoria civile – è avvenuta in Germania nel 1993 ma oramai la dicitura è entrata nel vocabolario Treccani e ne esistono interpretazioni «estensive» come quelle della scuola media Macinghi Strozzi a Roma che ha dedicato delle pietre di inciampo autoprodotte a 24 migranti scelti tra i 34mila morti in questi anni nel Mediterraneo. O quella di una scuola di Buenos Aires che ha raccolto l’idea e ne ha collocate alcune di fronte al proprio ingresso per ricordare degli studenti giunti in Argentina in fuga dalle leggi razziali fasciste.
COSÌ ALLA VIOLENZA del furto compiuto alla fine del 2018 che, a Roma, a Madonna dei monti, ne ha espiantate 20 dedicate alla famiglia Di Consiglio e Di Castro (ricollocate poche settimane dopo con una cerimonia a cui ha partecipato tutto il quartiere) fa da contraltare «Spolveriamo la memoria»: «Un’iniziativa importante per mantenere viva la memoria e riportare le persone a casa nei posti dove loro abitavano». Ma, nonostante i vandali, la posa delle pietre di inciampo non si ferma e – nonostante le difficoltà legate al covid – c’è modo di collocarne ancora, oltre alle circa 70mila che ci sono in Europa e le oltre 600 in Italia.
Il Manifesto 20 ottobre 2020