6 agosto 1945 - 6 agosto 2023
Hiroshima e Nagasaki sono state le prime vittime della Guerra fredda
di Gabriele Rigano*
Per una tragica ironia della sorte il primo atto di quella che chiamiamo la Guerra fredda fu l’esplosione più devastante e arroventata mai provocata dall’uomo fino a quel momento: 8.000 gradi (per 1/10.000 di secondo la temperatura fu di 400.000 gradi) che il 6 agosto del 1945 incenerirono l’intera città di Hiroshima con i suoi abitanti. Uomini, donne, vecchi e bambini.
Ancora oggi si possono ascoltare le testimonianze dei bambini che si salvarono. Qualcuno potrebbe pensare che furono questi i più fortunati tra i loro coetanei abitanti delle due città bombardate (Hiroshima e Nagasaki ndr).
Secondo alcuni di loro i più fortunati furono invece gli altri, coloro che svanirono nel nulla senza accorgersi di niente o coloro che morirono subito dopo per le ferite riportate. Molti dei sopravvissuti hanno considerato una maledizione la tenacia con cui i loro corpi hanno resistito all’assalto delle ustioni, delle ferite e di quel nuovo e sconosciuto nemico che erano le radiazioni. Resistenza pagata cara, con corpi devastati da malattie di ogni genere e deformati nel loro intimo.
Perché?
Perché avvenne tutto questo? Per evitare ulteriori spargimenti di sangue come venne affermato ufficialmente, e come si legge ancora oggi sui giornali? Il Giappone era ormai allo stremo delle forze, il blocco economico e i bombardamenti convenzionali avevano messo in ginocchio l’impero del Sol levante.
Secondo la testimonianza degli stessi generali americani, come l’ammiraglio Leahy, addetto militare di Truman, l’ammiraglio King, comandante in capo della marina da guerra Usa, e lo stesso Eisenhower, bastava attendere ancora qualche mese perché il nemico capitolasse per mancanza di materie prime e di cibo, senza i quali né carri armati né soldati si muovono.
Ma il problema era proprio il tempo. Gli americani non potevano permettersi il lusso di aspettare. Il tempo giocava a loro sfavore. Non rispetto ai giapponesi ma rispetto all’alleato già divenuto di fatto nemico, la Russia sovietica. Perché a questo punto la partita si giocava tra i due “alleati”, i russi e gli americani e il Giappone era diventato solo un bottino di guerra conteso.
Stalin e l’estremo oriente
Nella conferenza di Yalta del febbraio 1945 gli americani, sopravvalutando le capacità di resistenza dei giapponesi, strapparono ai russi, riluttanti, un accordo per l’intervento in estremo oriente da effettuarsi tre mesi dopo la fine delle ostilità in Europa (si trattava del tempo necessario per il trasferimento delle truppe sovietiche verso la Manciuria).
Ma nel luglio 1945 la situazione si era capovolta: il Giappone era a questo punto sconfitto. Gli americani tentarono quindi in tutti i modi di dissuadere Stalin dall’intervenire, ma questi, colta al balzo l’occasione di conquistare un cospicuo bottino in oriente con il minimo sforzo, insistette per partecipare all’occupazione del Giappone.
Alla conferenza di Postdam del luglio 1945, Churchill, informato da Truman dell’esplosione sperimentale del 16 luglio, disse: «Questa nuova arma deve permetterci di escludere l’Unione sovietica dalla vittoria in estremo oriente, perché fino a oggi non ha mai concorso a ottenerla». Proprio a questo servì l’arma atomica.
Corsa contro il tempo
Ora prestiamo attenzione alla cronologia: l’intervento russo era previsto per l’8 agosto (essendo la guerra in Europa terminata l’8 maggio). Il 16 luglio la prima bomba venne sperimentata con successo nel deserto del New Mexico. Da quel momento cominciò la corsa contro il tempo.
Senza ulteriori sperimentazioni e con una fretta all’apparenza inspiegabile, il 6 agosto la bomba venne sganciata su Hiroshima (più di 100.000 morti), ma il Giappone non cedette. L’8 agosto i russi cominciarono l’offensiva in Manciuria, puntando verso la Corea, trampolino di lancio per il Giappone. Il 9 agosto fu la volta di Nagasaki (più di 80.000 morti). Il 15 agosto il Giappone rese nota la decisione di accettare la resa senza condizioni imposta dagli alleati. Ma i russi non si diedero per vinti e continuarono l’avanzata cercando di raggiungere il cuore dell’impero del Sol levante e il diritto ad una fetta di bottino. Alla fine di agosto furono costretti a fermarsi per evitare un incidente diplomatico e per le lamentele dei giapponesi, che invocavano l’intervento americano.
L’armata rossa in poco più di 20 giorni aveva percorso poco meno di 800 km, attestandosi sul 38° parallelo della penisola coreana, su cui non a caso pochi anni dopo, tra il 1950 e il 1953, si giocò la seconda crisi calda della Guerra fredda. Il 2 settembre il rappresentante dell’imperatore firmò la resa.
Fine o inizio?
Gli americani avevano vinto la guerra contro il Giappone, ma anche la prima battaglia di una guerra a bassa intensità che si sarebbe rivelata ben più lunga, la Guerra fredda contro la Russia. Le prime vittime innocenti e inconsapevoli di questa guerra furono appunto gli abitanti di Hiroshima e Nagasaki, sacrificati per inibire l’espansionismo sovietico e rafforzare le posizioni degli Stati Uniti nel Pacifico.
Ebbe termine così la Seconda guerra mondiale, che con la Shoah e i bombardamenti atomici rappresenta la più alta manifestazione della barbarie della guerra nella storia umana; almeno fino a ora. E sì, perché la barbarie è contagiosa e riguardò anche chi era obiettivamente e indubbiamente schierato dalla parte giusta, come gli alleati.
Basti pensare alla politica dei bombardamenti indiscriminati, ancorché convenzionali, delle città nemiche per colpire deliberatamente i civili, attuata dall’aviazione inglese e americana, di cui Hiroshima e Nagasaki rappresentarono l’ultima e inimmaginabile tappa (a fine luglio Tokyo, Osaka, Nagoya, Kobe, Yokohama erano distrutte in proporzioni che andavano dal 40 a 65 per cento; Toyama venne distrutta per il 95 per cento; a parte i bombardamenti atomici i morti civili giapponesi furono 270.000).
Se la guerra è un azzardo di cui è difficile prevedere l’esito (è bene ricordare che sia la Prima che la Seconda guerra mondiale furono innescate da conflitti locali), e in cui è arduo preservare la propria umanità, l’unica uscita di sicurezza dall’escalation incontrollabile della barbarie che caratterizza ogni conflitto, è non fare la guerra che disumanizza al di là degli schieramenti, delle ragioni e dei torti.
Ancora oggi, in tempi di guerra, è utile riflettere su queste vicende, per tornare a dare spazio e una chance alla diplomazia e al negoziato: la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla fare solo ai militari. Che la politica riprenda l’iniziativa.
*è professore di Storia contemporanea all’Università per stranieri di Perugia
Domani 6 agosto 2023