9 OTTOBRE 1963. Il crollo della diga causò 1910 morti. Le autorità avevano nascosto i rischi idrogeologici
di Mario Di Vito
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Della notte del disastro restano dei frammenti. Alle 22 e 39 di mercoledì 9 ottobre 1963 in televisione c’è una partita di coppa tra Real Madrid e Rangers di Glasgow, ma la corrente va via e l’intera valle del Vajont resta al buio. Comincia a tirare un vento umido, quasi bagnato. E in quattro minuti esatti succede tutto: 260 milioni di metri cubi di fango e pietre si stacca dal monte Toc creando un’onda alta 250 metri che si infrange sulla montagna opposta e fa tabula rasa di tutto quello trova nel mezzo: la parte bassa di Erto e Casso. Poi Longarone, Codissago, Castellavazzo e, alla fine di tutto, la valle del Piave.
I morti sono 1910, almeno 460 hanno meno di quindici anni. I dispersi, ancora oggi, sessant’anni dopo, ammontano a quota 1.300. Perché lì, al confine tra il Friuli e il Veneto, la frana del Toc non ha cambiato solo la storia, ma anche la geografia. E l’ha fatto a tal punto che all’inizio quasi sembrava non fosse accaduto niente. Giacomo Pavoncello nel 1963 ha 21 anni ed è soldato semplice del 132° Reggimento artiglieria corazzata «Ariete» di Pordenone.
Quel mercoledì sera è di guardia e un suo superiore lo avvisa che c’è da correre verso Longarone, perché deve essere successo qualcosa di terribile. Un crollo, forse, non si capisce bene: la notizia è arrivata per caso dalla voce di un radioamatore. Da Pordenone partono in un paio di dozzine e quello che vedono, al loro arrivo, poco dopo le 23, è straniante: un paesaggio di fango.
«C’ERA SOLO TERRICCIO, la valle era completamente al buio», ricorda Pavoncello, che adesso racconta la sua storia su una panchina di viale Marconi, a Roma. «Ci misero in mano una pala e ci ordinarono di scavare. Passammo così diversi giorni. All’inizio non avevamo capito che sotto di noi c’erano centinaia di persone, solo all’alba siamo riusciti a vedere bene cos’era successo. Fu spaventoso. E molto triste», dice.
Per quelle giornate il Viminale diede a tutti i soldati dell’Ariete un attestato di benemerenza, ma Pavoncello non lo ritrova più e adesso è impigliato nella burocrazia ministeriale nel tentativo – sin qui vano – di ottenerne una copia, cosa che gli spetterebbe di diritto.
«Venivano tante persone per cercare di avere notizie dei loro parenti che erano lì – racconta ancora l’ex soldato -, non sapevamo cosa dire. Molte persone sono state salvate perché dal fango spuntava una mano o una gamba. Tanti altri non ce l’hanno fatta, ricordo che i corpi venivano ammucchiati a centinaia, erano troppi…».
ITALO FILIPPIN, quando tutto venne giù, di anni ne aveva 19. In seguito di Erto e Casso sarebbe anche diventato sindaco. Adesso, a quasi ottant’anni, tiene accesa la luce della memoria e accoglie chi va a visitare la diga, gestita dal Parco naturale delle Dolomiti friulane. «Mi trovavo nell’unica parte del paese che non è stata toccata dal disastro – dice -. Ero nel centro storico di Erto. Udimmo un boato inenarrabile. Si sentirono anche urla e pianti. Poi nulla più. Tutte le strade erano interrotte e, quindi, fino alla mattina successiva abbiamo vissuto con l’apprensione, ma anche con la speranza. Le luci del giorno sono state come uno schiaffo: i più arditi, che si erano arrampicati in zone da cui si poteva vedere la valle sottostante, sono tornati con le lacrime agli occhi. I loro racconti sembravano quasi inverosimili: Non c’è più nulla, l’acqua ha portato via tutto, Longarone non esiste più».
E almeno Longarone, dopo, è stato ricostruito, perché tanti paesi invece sono spariti sotto il fango. Un destino tremendo che si ripete a ogni catastrofe: piccole comunità che scompaiono nel nulla, tra abbandono e residenti che decidono di andare a vivere altrove. Del resto, si sa, a volte ricominciare è più facile che continuare. E dopo qualche anno il lutto cede il passo allo sconforto, che poi diventa stanchezza e infine resa.
COME TUTTI I DISASTRI, anche quello del Vajont ha un prima. Chi lo disse in anticipo era una giornalista, i cui racconti erano stati ignorati fino al 9 ottobre del 1963 e dopo vennero definiti come «sciacallaggio». Lei si chiamava Tina Merlin, scriveva per l’Unità e tra i suoi più grandi detrattori c’era Indro Montanelli, che solo trentacinque anni dopo, nel 1998, trovò il coraggio di ammettere che lei aveva ragione e lui torto: «In quel momento era largamente condiviso il sospetto che quelle voci volessero soltanto giovare alla causa di quella parte politica che reclamava la nazionalizzazione dell’industria elettrica».
Questo dettaglio – a conti fatti neanche piccolo – rende il Vajont il padre di tutti i disastri italiani: la forza della natura, quando ci si mette, è ovviamente implacabile, ma spesso e volentieri la situazione che trova davanti a sé è già disastrosa. In questo caso, la popolazione locale esprimeva preoccupazioni almeno dalla fine degli anni ’50, quando venne costruita la famosa diga e si venne a creare un bacino artificiale con le acque del torrente Vajont.
LA VERITÀ STORICA e quella giudiziaria ormai coincidono: i dirigenti della Sade, che gestì il tutto fino alla nazionalizzazione, nascosero in collaborazione con i progettisti la fragilità dei versanti del bacino, a forte rischio idrogeologico. Il tutto con l’interessata collaborazione del ministero del Lavori Pubblici e dei comuni: quella diga la volevano tutti, anche se sapevano che costruirla poteva essere pericoloso. Dopo una lunga serie di processi, soltanto nel 2000 lo Stato, Enel e Montedison saranno condannati a pagare 77 miliardi di lire per i danni morali e materiali alle popolazioni colpite, dividendo poi la somma in tre. L’avvocato Odoardo Ascari, al raggiungimento dell’accordo, volle ringraziare l’allora premier Giuliano Amato, che a suo dire molto si impegnò per risolvere la vicenda quando era ministro del Tesoro. Il conto totale del disastro, però, era di 900 miliardi.
Il Manifesto 8 ottobre 2023