Solo favorendo il benessere reale delle persone si inverte la rotta dei consumi a tutti i costi

di Alessandro Tamburini

consumismo

 

Le parole hanno una storia, e la Storia si comprende anche attraverso le parole, la loro fortuna o scomparsa. Negli anni ‘60 e ‘70 “consumismo” era parola ricorrente nel deplorare il fenomeno per cui attraverso l’induzione di falsi bisogni le persone erano spinte all’acquisto continuo di prodotti, anche per vantare l’avanzamento di status sociale che col loro possesso ritenevano di raggiungere. Non tutti i giovani contestatori di allora avevano letto Marcuse e Adorno, ma nelle loro biblioteche ancora tascabili non mancava "Avere o essere" di Erich Fromm, forte già nel titolo dell’antagonismo di valori e comportamenti che andavano cercando. Al possesso di beni materiali contrapponevano la crescita interiore, da perseguire con conoscenze, musica, viaggi. Attraverso incontri ed esperienze condivise come l’impegno sociale, con un’assunzione di responsabilità verso chi non riusciva a soddisfare nemmeno i propri bisogni primari, dalle classi meno abbienti alle aree povere del pianeta. E il consumismo era osteggiato anche in quanto portatore di disuguaglianze ulteriori.

Oggi la parola è caduta in disuso, rischia di risultare addirittura eversiva, perché il modello economico su cui il consumismo era fondato ha stravinto. Il fenomeno esecrato è diventato valore inoppugnabile. La sua denuncia rischia di risultare velleitaria se non patetica. Il livello dei consumi è indice primario dell’economia di un paese e il loro aumento è considerato segnale di prosperità e benessere, in totale ignoranza di quello «sviluppo senza progresso» che Pasolini svelava con la sua lucidità profetica.

Pochi decenni fa l’esortazione a consumare è calata perfino da un discorso pubblico del Presidente del Consiglio. E che siamo o meno personalmente partecipi di questo processo, lo abbiamo ormai dato per acquisito, accettiamo di subirne gli effetti, a cominciare dalla pubblicità che come una mucillagine si propaga negli spazi comuni, dalla Rete alla televisione, dove più che altrove è impossibile difendersene. Pare inverosimile che la Commissione di Vigilanza abbia sospeso “Carosello”, 1 gennaio 1977, per evitarne l’eccesso nelle ore di massimo ascolto. Il consumismo è stato elevato a stile di vita, a principale veicolo della realizzazione personale. “Consumo, dunque sono”, come denuncia un recente saggio di Bauman. E ne risulta ancora rafforzata la valenza identitaria, anche a colmare altri spazi che nel frattempo sono rimasti vuoti.

Una sensazione di appagamento si ricava dall’atto stesso dell’acquisto. Poi subentra l’esibizione del bene acquisito, ed è sempre valida l’immagine di “consumo vistoso” di cui nel lontano 1899 si serviva Thorstein Veblen nella Teoria della classe agiata, altro testo immancabile per i giovani contestatori. La soddisfazione provata, un’ebbrezza di apparente felicità, non è che un’immagine riflessa, deriva dal far credere agli altri che il possesso renda felici. In un gioco di specchi, ti senti e ritieni tale se credi che gli altri pensino che lo sei.

Uno degli ultimi espedienti escogitati per incrementare i consumi, la cosiddetta “obsolescenza programmata”, di nome e di fatto potrebbe essere reputata un reato da Codice Penale, ed è invece a sua volta accettata come prassi normale e legittima. Appaiono ormai alieni certi strumenti immutabili, pensati e costruiti una volta per sempre, come una forbice, una pinza per il caminetto, un apribottiglie. L’oggetto deliberatamente prodotto con una durata predefinita è garanzia di una produzione incessante. Si rompe e va sostituito, perché aggiustarlo non risulta conveniente. Altrimenti viene reso inservibile, specie riguardo alle nuove tecnologie, con un ricambio incalzante di software che necessitano di supporti sempre più evoluti, e non sembra proprio che allo smaltimento dei prodotti scaduti sia data la rilevanza che meriterebbe.

Esistono movimenti che si oppongono a tutto questo, propugnano una “decrescita felice”, invocano scelte ecosostenibili, ma restano una minoranza, mentre l’effetto più tangibile è che il sistema si reinventa per inglobare anche quelle. Come succede con l’auto elettrica, per cui lo scopo dichiarato di ridurre l’emissione di CO2 lascia aperto più di un dubbio, a fronte di una tanto colossale opportunità per rinnovare il parco auto dei paesi ricchi.

L’esplosione immaginaria e liberatoria di un campionario di beni di consumo con cui oltre mezzo secolo fa Antonioni concludeva "Zabriskie point" appare come un’ingenua fantasticheria, ma continuare a sentirsi impotenti rispetto alle questioni che contano davvero rischia di portare all’assuefazione, anticamera dell’indifferenza, E sembra sempre più un miraggio che nel discorso pubblico diventi dirimente un cambiamento di rotta vero, per cui la legge del profitto non debba sempre prevalere sul benessere reale delle persone.

Avvenire, 8 agosto 2024