La bimba venuta dal mare, ma un miracolo non basta a cancellare la vergogna

di Melania Mazzucco

Yasmine

Di Alan Kurdi, il minuscolo Joseph, la siriana Loujin, le nigeriane Marian e Osato, i bambini morti d’acqua e di sete nel Mediterraneo, ricordiamo ancora il nome (tanti altri, rimasti anonimi, sono meri numeri nell’aritmetica dello scandalo, che somma almeno trentamila morti negli ultimi dieci anni). Le immagini dei loro corpi esanimi (o dei loro funerali) sono diventati il simbolo della nostra vergogna. Il dolore e lo sdegno suscitati dalla loro fine, autentici benché inquinati dall’ipocrisia, sono invece svaniti. Yasmine però è stata salvata dalle acque: come Mosé, si potrebbe dire, per augurarle un destino da guida del suo popolo, da profeta e da legislatrice. Ma il passivo non è la giusta configurazione del verbo. Yasmine si è salvata. Riflessivo. La grammatica ci insegna che c’è differenza. Il soggetto compie un’azione che ritorna su sé stesso. Yasmine non è un corpo, né un numero, né una salma: è un soggetto, e il soggetto di questa storia.

Dunque la protagonista ha undici anni ed è originaria della Sierra Leone. Cerchiamolo sulla carta geografica, il suo paese, sulla costa occidentale dell’Africa, fra il Tropico del Cancro e l’Equatore; calcoliamo la distanza che lei ha percorso (più di seimilasettecento chilometri) e proiettiamola nel tempo impiegato (anni? mesi?); chiediamoci dove avrebbe dovuto essere, alla sua età, in un giorno qualunque di dicembre (a scuola, in classe, con i compagni). Invece è partita, col fratello maggiore, al posto del padre, rimasto ad aspettare un’altra barca — i genitori affidano la speranza ai figli, perché potrebbero avere ancora un futuro. Forse lei sarà protetta dalla nostra fame di storie tragiche, purché altrui (ogni viaggio di un migrante è un’avventura, ogni naufragio è epico, ma il salvataggio lo corona con un provvisorio lieto fine e lo rende accettabile alle nostre coscienze).

Forse di Yasmine conosceremo solo uno spicchio del viso patito, e gli occhi immensi e sgranati che sbucano dall’oro della coperta termica. Nero e oro: il nero è oro per l’Occidente, dai tempi della tratta. Nere sono pure le camere d’aria da tir cui si è aggrappata. Provvidenziali perché galleggiano meglio di un relitto, ma in realtà ciambelle di gomma fabbricate con materia prima o manodopera depredata anch’essa (si comprano su internet per diciotto euro e novanta centesimi). Abbiamo l’Odissea tatuata nella memoria collettiva, ma non riusciamo a immaginare la sua. Eppure occorre farlo. Tre giorni su un barchino in balia della tempesta, delle onde e dei venti. E del buio. Quanto tenebrosa e terrificante può essere la notte in alto mare lo sanno perfino i crocieristi. E poi ore infinite nell’acqua fredda di dicembre. In quale disperata solitudine deve essersi ritrovata dopo che gli altri naufraghi attorno a lei sono scomparsi. Eppure Yasmine è viva, e adesso è qui.

Dalle poche parole dei soccorritori della Trotamar III che finora sono state rese note, sappiamo che ciò è stato possibile perché Yasmine ha gridato. Nonostante i motori accesi e il fragore della tempesta, i soccorritori l’hanno sentita. La voce di questa bambina li ha chiamati, ma chiama anche tutti noi. Erano le sue urla, il suo fiato: la rivendicazione di esistere. Io, ora, qui. Ma il grido di aiuto — nel buio nemmeno metaforico di questo 2024 orribile per il mondo — è collettivo. Continueremo a dire che c’era rumore, che c’erano fatti più importanti — e che per questo non abbiamo sentito. Lei però ci sta guardando. È debole, stremata. Ma i suoi occhi sono aperti. E ci vede. La remissione e l’oblio provocati da una pressione sociale, da parte di chi perdona per ignavia e convenienza — ha scritto Jean Améry — sono immorali.

Repubblica, 12 dicembre 2024