Le voci in rivolta del popolo d'Egitto
di Thomas L.Friedman
Ti trovo inpiazzaTahrir; e tra i tanti spettacolii sorprendenti che si vedono qui sono soprattutto colpito daunuomo barbuto che saltella qua e là e si sgola letteralmente urlando: «Mi sento libero! Mi sento libero!». Intorno a lui si è radunata gente di ogni età - comprese alcune donne velate dalla testa ai piedi, tranne due fessurepergli occhi - che coi telefoninialzatiriprendono con foto e video l`uomo determinato a catturare quest`attimo, per il caso che non si ripresenti più.
Ma non è forse questo lo stato d`animo di tutti noi? Da 40 anni scrivo sul Medio Oriente, ma non ho mai visto nulla di paragonabile a ciò che accade su questa piazza. In una regione in cui la verità (insieme a chiunque abbia osato esprimerla) è stata così a lungo soffocata sotto il peso schiacciante delpetrolio, dell`autocrazia e dell`oscurantismo religioso, si è aperto all`improvviso uno spazio autenticamente libero, ad opera degli stessi egiziani e non per mano di eserciti stranieri. Girovagando per questa piazza si è testimoni di tutte le speranze, aspirazioni e frustrazioni represse per mezzo secolo. So bene che secondo gli«esperti» realisti tutto questo è destinato a finire presto. Forse hanno ragione.
Ma per un breve e luminoso momento dimentichiamo gli esperti e prestiamo attenzione solo a oueste voci mai sentite prima. Quelle di un popolo per tanto tempo condannato al mutismo, che finalmente ritrova l`uso della parola, mette alla prova la propria voce e la celebra.
Un ingegnere 50enne, Hosam Khalaf, mi ferma per dirmi: «Abbiamo ricevuto un messaggio da Tunisi che dice: "Non vi bruciate, bruciate lapaura che è in voi". Ecco cos`è successo qui: la nostra era una società impaurita, ma ora abbiamo bruciato la paura». Khalafmi spiega perché è venuto qui con sua moglie e sua figlia: «Quando incontreremo Dio potremo almeno dire: "Abbiamo tentato di fare qualcosa"». Ma qui non stiamo assistendo a un evento religioso, e a gestirlo non sono i Fratelli Musulmani. Quello che è in atto è un evento egiziano: qui sta la sua forza, ma anche la sua debolezza.
Nessuno ha un incarico preciso, e su questa piazza è presente la società intera: si vedono ragazze emancipate vestite all`ultima moda, sedute accanto a donne velate; genitori con bimbi in carrozzina e in mano cartelli con la scritta: «Mubarak se ne deve andare»; studenti in jeans e contadini con lunghe vesti. A unirli è il desiderio indomabile di riprendersi il futuro. «Per la prima volta nella mia vita riesco a dire in pubblico quello che penso», dice Remon Shenoda, ingegnere informatico. «Qui siamo tutti accomunati dal desiderio di dire qualcosa».
È diffusa e palpabile anche la forte sensazione di essere stati defraudati da questo regime e dai suoi sodali, che oltre a sottrarre ricchezza a questo popolo lo hanno privato di qualcosa di molto più prezioso: il futuro di un`intera generazione, alla quale il potere non ha saputo dare né gli strumenti per crescere e affermarsi, né una visione ispiratrice degna della grande civiltà egiziana.
«Noi tutti crediamo nella grandezza di questo Paese, che ha profonde radici nella Storia; ma il regime di Mubarak ha distrutto la nostra dignità di egiziani nel mondo arabo e ovunque» dice Mohamed Serag, docente all`università del Cairo.
Qui tutti tengono a presentarsi indicando il proprio nome, e si assicurano che sia scritto correttamente. Sì, lapauraè davvero svanita. Ovunque si esprime il malcontento.Un`anziana velata parla delle tre figlie diplomate presso un istituto commerciale, tutte disoccupate. Molti cartelli fanno riferimento al passato di Mubarak, già ufficiale delle forze aeree, con domande del tipo: «Signor pilota, dove li hai presi quei 17 miliardi di dollari?» Non si fa quasi cenno a Israele, e le foto dei «martiri» esposte tutt`intorno alla piazza - cosa davvero inconsueta nel mondo arabo - sono quelle degli egiziani morti lottando perla libertà, e non contro lo Stato ebraico.
Si accede alla piazza dopo una serie di controlli: un gruppo di volontari verifica le carte d`identità, un altro gruppo si accerta che i nuovi venuti non sia- no armati; si passa poi tra una doppia fila di uomini che applaudono intonando un canto di benvenuto egiziano.
Devo confessare che in quel momento ero in p reda a due stati d`animo opposti. Il mio cervello mi diceva: «Stai calmo e ricordati che da queste parti non c`è aria da lieto fine: qui sono sempre i cattivi a vincere»; ma i miei occhi volevano solo guardare e prendere nota di una realtà mai vista prima.
È una lotta titanica, un braccio di ferro tra un potere ormai stanco ma tuttora forte, nato da una rivoluzione calata dall`alto (guidata nel 1952 dall`esercito egiziano) e la nuova rivoluzione del 2011, sorta dalla base, vibrante anche se caotica, priva di armi ma forte di una legittimazione a tutta prova. Mi auguro che i contestatori di piazzaTahrir riescano ad organizzarsi almeno quanto occorre per negoziare con l`esercito una nuova costituzione. Le difficoltà e gli insuccessi non mancheranno.
Ma qualunque cosa accada, l`Egitto non sarà più come prima.
Una volta lasciata la piazza Tahrir e attraversato il ponte sul Nilo, il professor Mamoun Fandy mi ha citato un`antica poesia egiziana che dice: «Il Nilo muta tante volte il suo corso, ma mai si potrà prosciugare». E questo è vero anche per il fiume di libertà che scorre oggi in questo Paese. Sarà forse deviato per qualche tempo, ma non potrà inaridirsi.
Repubblica 10 febbraio 2010 c. New York Times Service Traduzione di Elisabetta Horvat