Orfeo che ricaccia i profughi all’inferno. E poi muore
di Raffaele K. Salinari
(foto: Alberta Aureli)
Il mito di Orfeo ed Euridice torna in tutta la sua drammatica attualità nelle vite dei profughi attanagliati nel gelo dell’inverno serbo. Narra la storia che il cantore della Tracia, capace di affascinare con la sua musica non solo gli umani ma di incantare financo piante e animali, chiedesse ad Ade, l’onnipotente signore degli Inferi, di concedergli la grazia di portare sua moglie Euridice fuori dalla notte eterna. Il suono della sua cetra bistonica, con la quale aveva annullato anche il canto delle Sirene durante l’avventura degli Argonauti, convinse il Principe degli Inferi che, però, pose una semplice condizione: Orfeo non doveva voltarsi a guardare Euridice prima che la sua risalita fosse compiuta.
Sappiamo come va a finire: Orfeo si voltò e la sua amata dovette tornare per sempre nell’Erebo. Perché Orfeo si è voltato, condannando Euridice? Forse perché, ci dicono gli antichi, aveva ad un certo punto acquisito la drammatica consapevolezza che avrebbe resuscitato una donna morta, che sempre gli avrebbe ricordato la notte eterna dalla quale era uscita e questo, ad Orfeo, cantore della vita, era insopportabile. Oppure, ma il senso non cambia, la sua era solo una ennesima sfida: anche la morte si sarebbe piegata al suo canto; vinta la contesa di Euridice non gli importava più nulla.
Oggi, in queste ore, oramai da alcune settimane, noi siamo Orfeo che però, non solo una, ma centinaia e centinaia di volte con migliaia di uomini, donne, bambini e vecchi, ripetono il gesto della ricacciata all’inferno di chi ne voleva uscire. Cos’è infatti questo lasciar morire di freddo i profughi, o ricacciandoli nelle terre di nessuno com’è successo tra Serbia e Bulgaria, se non un ricacciarli nell’inferno dal quale volevano uscire? Tra l’altro, dato del quale non si parla, l’emergenza di questi mesi ha riaperto anche le irrisolte questioni dell’area balcanica, lasciate in sospeso dai cosiddetti accordi di pace. Basti pensare ai profughi serbi di origine kossovara, rifugiati interni il cui destino è pari per crudeltà a quello di chi arriva dalla Siria.
La strumentalizzazione colpevole, da tutte le parti nessuna esclusa, di questi corpi fantasmatici come le città da cui provengono, è la cifra più esatta dell’ipocrisia sulla quale costruiamo le nostre politiche di sfruttamento del lavoro nero. Cosa serviranno mai i nuovi Cie se non a far capire agli aspiranti migranti quel sarà il trattamento riservato loro in caso non si pieghino alle regola dello sfruttamento?
E dunque, per rimanere nel mito, che come tutti i miti insegna ciò che mai è stato ma che sempre sarà, come diceva Pavese, andiamo a vedere la fine di Orfeo. Egli viene ucciso dalle Menadi forse perché offende Dioniso, cioè il principio della vita indistruttibile che nasce muore e rinasce in continuazione, non volendo celebrare questo ineludibile passaggio, volendo rimanere for ever young.
E non è esattamente questo che vogliamo noi? Non è l’immortalità che cerca l’Occidente? E non è forse la merce che ci sussurra di perseguire questo scopo disumano? E allora come meravigliarsi che la nostra morte fisica, come quella di Orfeo che si rifiuta di cantare la vita nel suo eterno divenire, rischia ogni giorno di più di essere la stessa del cantore tracio: fatti a pezzi da un Tir mentre andiamo a consumare qualcosa?
Tutto torna, come Euridice, a ricordarci il debito che abbiamo nei confronti di chi vogliamo ricacciare all’inferno perché non ci ricordi che siamo stati noi a metterceli. Facciamocene una ragione e agiamo senza ipocrisia per salvare dunque non solo quelle vite lontane ma la nostra stessa vita.
Il Manifesto 15 gennaio 2017