Il Sud, la pandemia e lo spirito del capitalismo italiano
di Veronica Pecile
Da quando esiste il progetto nazionale italiano, il Sud ha sempre rivestito il ruolo dell'Altro.
Foto: David Alfons
L'alterità mediterranea nei confronti del progredito Nord non è solo un ordine del discorso, ma anche un assetto materiale di disparità socio-economico prodotto e riprodotto in diversi momenti della storia nazionale: un'opposizione efficacemente riassunta nella formula di «orientalismo in un solo paese ». Il Sud come margine della modernità capitalista è stato creato e ricreato a ogni congiuntura storica di crisi - cioè un ogni momento di ristrutturazione del sistema capitalista su scala nazionale - da un intreccio semper rinnovato di regimi discorsivi, politiche pubbliche e rappresentazioni culturali cui utili intellettuali, classe politica, istituzioni e tutti quei soggetti che, per usare un vocabolario gramciano, creano egemonia, cioè un'organizzazione del consenso attraverso cui i dominanti esercitano un controllo culturale sui dominati.
Possiamo individuare tre congiunture in cui l'invenzione del Sud come Altro dalla modernità si è rinnovata: l'indomani dell'unità d'Italia, il dopoguerra del boom economico, la fase neoliberale in cui ci troviamo. [1] Ognuna di queste tappe corrisponde a uno stadio specifico della storia italiana delle trasformazioni capitaliste; in un certo senso, l'alterità del Sud è l'autentico spirito del capitalismo italiano.
Com'è possibile che durante la seconda ondata della pandemia alcune regioni del Sud siano diventate rosse e arancioni non a causa del numero dei contagi, ma per via di mancanze strutturali di servizi pubblici? Per provare a rispondere, è utile rinfrescarci la memoria sulla questione meridionale e sul modo in cui sotterraneamente percorre tutta la storia del paese, alternando fasi di latenza ad altre di riemersione in cui si svelano delle contraddizioni accumulatei da più di centocinquant'anni a questa parte .
Dopo l'unificazione: il Sud venire colonia da civilizzare
«Qui l'Italia ha un'alta Missione da Compiere e Una colonia da civilizzare»: Così Scrive l'antropologo Alfredo Niceforo nel 1898 a un Saggio - L ' Italia barbara contemporanea - Che diventerà il vademecum delle classi dirigenti del nuovo Stato italiano e il fondamento della presunzione d'inferiorità antropologica di ogni abitante dell'Italia meridionale. È un momento storico decisivo: si tratta, per le élite nazionali, di connettere la penisola al sistema capitalista che si è presentato nei decenni precedenti sul continente europeo. Sono gli intellettuali a insistere nei confronti della classe politica affinché si adottino le più moderne pratiche di governo per gestire popoli che ricordano «i selvaggi delle Americhe», come annota Leopoldo Franchetti nel 1876 descrivendo i siciliani. Si gettano così le fondamenta della razzializzazione del Sud - ovvero della costruzione della sua alterità su basi razziali : a ratificare questa visione saranno, di lì a poco, l'introduzione delle statistiche nazionali e le teorie lombrosiane sulla supposta inferiorità biologica dei «semibarbari» del Meridione.
Contro queste narrazioni si levano voci importanti: ad esempio, quelle di Filippo Turati e Napoleone Colajanni, entrambi socialisti, che sottolineano come gli alti tassi di criminalità nel Sud sono da attribuire non a cause biologico-razziali, ma a fattori ambientali e storici quali una povertà strutturale e una mancanza endemica di accesso all'istruzione e al lavoro. Sono questi i presupposti teorici e politici del Meridionalismo, che eserciterà una grande influenza sul pensiero di Antonio Gramsci.
Il boom economico e la corsa alla modernizzazione
Il dopoguerra è un secondo momento di reinvenzione dell'alterità del Sud nei confronti della modernità capitalista. Il carburante del miracolo italiano è la manodopera a basso costo dei migranti meridionali che si spostano verso le fabbriche del Nord, autentica precondizione del boom economico. Negli anni '50 gli altissimi livelli di disoccupazione, diffusa soprattutto al Sud, combinati una domanda di lavoro che eccede enormemente offerta generano salari bassissimi e creano uno scenario in cui all'incremento della produttività corrisponde uno sproporzionato aumento dello sfruttamento del lavoro. [2] Sono gli anni dell'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, che non riuscirà mai a rimediare a problemi di portata sistemica (mancanza d'infrastrutture, povertà e disoccupazione, persistenza della criminalità organizzata). Nemmeno la riforma agraria, che nel dopoguerra avrebbe dovuto placare la tensione nelle campagne centro-meridionali e rivitalizzarne il tessuto sociale, riesce a sanare i dislivelli socio-economici del Sud ea rallentare l'emigrazione verso il Nord. Con buona pace di chi celebra un ideale di progresso come sviluppo lineare in tutti i luoghi, in Italia come altrove gli squilibri sono consustanziali all'avanzata del capitale: si tratta di un pattern di sviluppo e accumulazione tra tanti.
In quegli anni, a giustificare la marginalizzazione del Sud in nome della modernità intervengono valutazioni morali prodotte non solo all'interno, ma anche all'esterno del paese, nel quadro di uno scenario internazionale profondamente mutato. The Moral Basis of a Backward Society di Edward Banfield diventa un riferimento teorico imprescindibile per chiunque creda nell'inconsolabile arretratezza del Sud; se nel Nord Italia gli individui agiscono da cittadini di una moderna società civile, al Sud ragionano come i sudditi di un decrepito sistema feudale, scriverà Robert Putnam decenni dopo.
Nel corso del dopoguerra, l'imperativo della modernizzazione sa imporsi in modi vistosi e spettacolari. Un esempio è «Legge Speciale per lo sfollamento dei Sassi di Matera» del 1952 che impone ai materani di abbandonare i Sassi - il «cratere infernale», li definì Carlo Levi - dichiarati insalubri e inabitabili dalle autorità pubbliche. Ernesto De Martino denuncia l'approccio culturalista del progetto, portato avanti dal governo democristiano con il supporto di consulenti statunitensi. Contro questo smaccato orientalismo, le sue ricerche portano alla luce quanto le trasformazioni delle società meridionali in quegli anni fossero legate allo sviluppo del resto del paese e risentissero di un confronto costante con modelli normativi di progresso.
Foto: Giovanni Calia
La fase neoliberale: la marginalità del Sud come oggetto di accumulazione
L'alterità del Sud si ricostituisce una terza volta nell'epoca neoliberale iniziata alla fine degli anni '80. È una fase di accesso degli investimenti pubblici e deregulation di diversi settori economici in tutto il paese che risponde, per le élite nazionali, all'imperativo di unirsi all'Unione monetaria europea e più in generale a un ordine globale in cui la liberalizzazione è al cuore dell'integrazione economica. La Cassa per il Mezzogiorno viene abolita senza mai essere riuscito ad assicurare un'effettiva redistribuzione delle risorse e comincia una fase di lento e inesorabile disinvestimento nelle regioni del Sud. [3]
Un aspetto sbalorditivo di questa fase - in cui ancora ci troviamo - è che la marginalità del Sud non è più vista come ostacolo alla modernizzazione, bensì diventa oggetto dell 'a ccumulazione capitalista. Ne è un esempio la turistificazione che vivono molte città del Sud - Napoli, Palermo, Matera tra le altre: questi luoghi diventano mete di una strategia di accumulazione che estrae valore dal carattere «autentico» e «folkloristico» delle pratiche quotidiane dei suoi abitanti agli occhi orientalisti di turisti e investitori. L'economia urbana a base turistica nelle città del Sud è un modello economico e di sviluppo fallimentare a medio e lungo termine: incentiva la speculazione immobiliare, espelle i poveri dai centri storici, non crea meccanismi permanenti per la redistribuzione della ricchezza.
La pandemia e il caso calabrese
È a questo punto che ci trovavamo, prima che la pandemia rivelasse i danni provocati su tutto il territorio italiano da anni di tagli al settore sanitario e agli altri servizi pubblici di base e aggravasse gli squilibri discorsivi e materiali di cui si nutre la modernizzazione capitalista. La crisi calabrese di queste settimane offre uno spettacolo sconcertante di come nella fase neoliberale la retorica orientalista si sdoppi nei fatti e in questi si materializzi, superando se stessa: come scriveva Calvino, la menzogna non è solo nel discorso, è nelle cose. Il disastro sociosanitario che la regione sta attraversando non si deve al numero dei contagi, che rimane relativamente esiguo, quanto un processo sistematico di disinvestimento e predazione di risorse pubbliche che è andato avanti per decenni prima di sfociare nella situazione attuale. Ironia della sorte, la Regione Calabria aveva appena finanziato Gabriele Muccino per girare un video promozionale il cui obiettivo doveva essere il rilancio dell'economia turistica dopo il covid. Il corto, intitolato Calabria terra mia è realizzato con un budget di 1 milione e 700 mila euro, condensa in otto minuti ogni stereotipo immaginabile sul Sud. Inizia con Raoul Bova che a tavola offre un bergamotto alla fidanzata come se fosse un misterioso frutto esotico e prosegue con passeggiate romantiche tra gli aranci, abbuffate di fichi davanti al mare, risvegli tra sussurri d'amore e soppressata. Mentre tanti cliché tutti insieme scatenavano un ampio dibattito, la Calabria è precipitata nell'emergenza sanitaria e sociale ed è stata dichiarata zona rossa. Commissariata dal 2007, la sanità calabrese riceve il 70 per cento della totalità del bilancio regionale: eppure negli ultimi anni l'intreccio di tagli neoliberali agli ospedali di comunità, mala gestione da parte di una classe politica predatoria e infiltrazioni della criminalità organizzata ha creato i presupposti per il disastro. Come al solito, la trafila mediatica che accompagna gli eventi è intrisa di orientalismo. La nomina di Guido Longo a commissario straordinario è stata preceduta dall'invocazione di una serie di figure salvifiche dal profilo rigorosamente statalista-repressivo, quali pubblici ministeri, poliziotti, prefetti, o magari «un calabrese figlio di contadini, emigrato per fame» . Negli stessi giorni, sui quotidiani fioccano articoli razzisti in cui si afferma che la Calabria «non è una terra normale» in quanto la sua società e le sue istituzioni coinciderebbero con la 'ndrangheta (come ha scritto Augias su Repubblica). Ancora una volta, in una congiuntura di crisi è il discorso sull'alterità del Sud a legittimare la traiettoria del capitalismo italiano e le sue nuove ristrutturazioni. L'egemonia della prospettiva orientalista, mai veramente scalfita, fa sì che oggi davanti ai danni sanitari e sociali prodotti da anni di politiche neoliberali non si batta ciglio: non c'è alternativa.
La questione meridionale riemerge così in tutta la sua forza. Probabilmente solo massicci investimenti pubblici e un reddito universale saranno in grado di scongiurare la tragica alternativa tra salute e sopravvivenza in cui si trovano fasce di popolazione sempre più ampie. In tempi così terribili, si materializza però anche una grande opportunità: quella di aprire gli occhi sull '«orientalismo in un solo paese» e di archiviare una volta per tutte il mito di una modernità che si fonda sempre sulla non modernità dell'altro.
[1] Per approfondimenti sul processo di costruzione - politica e visuale allo stesso tempo - di alcuni gruppi sociali come marginali all'interno del progetto nazionale italiano, si veda David Forgacs, Margini d ' Italia: L ' esclusione sociale dall ' Unità a oggi , Laterza, Bari 2015.
[2] Paul Ginsborg, A History of Contemporary Italy: Society and Politics 1943-1988 , Penguin Books, London 1990, pp. 214-217.
[3] Ugo Rossi, Il metodo di Gramsci. Ascesa nazional-populista e nuova questione meridionale in Italia, «Rivista Geografica Italiana», 126, numero 4 (2019), pp. 222-227.
Il lavoro culturale, 2 dicembre 2020