L'Orrore e la Tomba
di Adriano Prosperi
Del morto Priebke vorremmo non dover parlare più se non in sede di analisi storica, per conoscere meglio i meccanismi che hanno fatto di uomini comuni come lui la banda di assassini di cui è stato membro e per ragionare sulla storia che abbiamo alle spalle – per far sì che non si ripeta più.
La Chiesa si rifiuta di celebrare i suoi funerali, l’Argentina respinge la salma, Roma gli nega la sepoltura. Priebke è morto e nessuno lo vuole. Il suo corpo, quel corpo di vecchio che lui nelle uscite con la badante si studiava di mantenere eretto come si conveniva a un ufficiale delle SS, ora è composto nella bara. Ma in quella morte non c’è nessuna pace. La sorte di quel cadavere rischia di diventare un incubo. Dove sarà sepolto? Questa era stata la prima domanda che ci si era posti. E la risposta era stata: in Argentina, dove aveva vissuto per mezzo secolo indisturbato. Era un desiderio più che una risposta, dettato dal senso della speciale sacralità del suolo italiano e romano dove riposano le vittime delle Fosse Ardeatine. E invece no, l’Argentina non lo vuole. Così è cominciata una storia che promette di essere una strana ma importante cartina di tornasole di abitudini antiche e di problemi nuovi. Qui sono presenti e in conflitto l’opinione pubblica, le regole civili e le norme ecclesiastiche. L’esecrazione per l’uomo che ha ucciso i martiri delle Ardeatine ma poi ha negato di averlo fatto, ha mentito sulla Shoah sapendo di mentire e ha continuato lui vivo a infangare la memoria delle sue vittime, è un sentimento talmente forte che solo la vecchiezza estrema dell’antico uccisore di inermi ha potuto stemperarla: con la sua morte è rimasto a tutti solo il desiderio di dimenticarlo al più presto.
In Italia si seppellisce quasi sempre con rituale religioso. Pochi lo rifiutano. E la Chiesa non nega praticamente mai le esequie ecclesiastiche: non sono più i tempi in cui le ceneri degli eretici mandati al rogo erano disperse nell’acqua del Tevere o i protestanti e gli ebrei venivano sepolti furtivamente a notte lungo il Muro Torto. Per gli italiani i funerali in chiesa fanno parte di un loro speciale cristianesimo diventato abitudine e normalità anche per molti non credenti. Tanto è vero che non esistono da noi luoghi deputati per un rito laico dell’ultimo saluto. Anzi, come ha detto l’avvocato di Priebke Paolo Giachini, quelli religiosi sono un diritto di tutti. Ma il Vicariato ha detto no e la decisione nella diocesi che ha per vescovo l’argentino Bergoglio diventato Papa Francesco deve essere stata attentamente meditata e non presa a caso.
Cerchiamo di affidarci al codice di diritto canonico per capire meglio. Qui si elencano molte categorie a cui deve essere negata la sepoltura ecclesiastica: eretici, apostati, scomunicati e altro ancora, persone che fino all’ultimo, consapevolmente, senza pentirsi, abbiano negato e combattuto la dottrina della Chiesa e si siano esplicitamente a lei dichiarati avversi. Ma c’è un caso recente che tutti hanno in mente e che forse ci può aiutare a capire come funzionino queste regole: quello di Giorgio Welby. La sua ferma e consapevole rinuncia alle cure e l’espressa volontà di far staccare la macchina che lo aiutava a respirare lo rese agli occhi del Vicariato di Roma ribelle lucido e consapevole alla dottrina della Chiesa contro il suicidio e l’eutanasia e dunque indegno di funerali religiosi. Fu per molti un dramma, una lacerazione delle coscienze: ma come, la Chiesa non perdona? Toccò al cardinal Ruini allora vicario della città di Roma spiegare che la Chiesa poteva concedere il rito religioso anche ai ribelli alla dottrina ortodossa (in quel caso ai suicidi) purché si potesse accampare il dubbio che fossero mancati in loro « piena avvertenza e deliberato consenso». Ecco il punto: Welby fino all’ultimo e con piena lucidità rifiutò di riconoscersi in quella religione che gli imponeva di vivere a forza, attaccato a una macchina. La sua scelta espresse le convinzioni di molti e fu comunque oggetto di grande e diffuso rispetto; quella del vicariato invece apparve gelidamente crudele.
Ma Priebke? Su di lui a differenza che nel caso di Welby, la condanna del vicariato va d’accordo col giudizio unanime dell’opinione pubblica. Priebke fino all’ultimo ha rifiutato di pentirsi di ciò che aveva fatto e ha mantenuto ferme con «piena avvertenza e deliberato consenso» le convinzioni che lo avevano portato alla strage delle Fosse Ardeatine. Ecco il punto fondamentale: oggi una diocesi di Roma non più governata dal vicario cardinal Ruini ma dal vescovo Bergoglio – papa Francesco, ha voluto dare il segno che ci sono peccati così gravi da imporre il rifiuto dello spazio sacro per il rito funebre. Si dovrà dunque riscrivere a partire da questo segno il patto italiano di convivenza e sovrapposizione tra abitudini sociali e riti religiosi cristiani. E comunque il senso del peccato imperdonabile che è per l’opinione pubblica la rivendicazione impenitente della strage delle Fosse Ardeatine coincide, a quanto pare, con la sentenza del vicariato cattolico di Roma.
Resta la necessità di una sepoltura di quel corpo: la più rapida e discreta possibile, ma pur sempre una sepoltura. Su questo si deve essere chiari. Non è degno di una società civile infierire sui corpi dei morti: e se l’Italia è stata così civile da offrire al criminale Priebke un processo secondo le regole e una pena attenuata e quasi cancellata in ragione della sua età, non sarà certo il caso di fare passi indietro su questo percorso. Del morto Priebke vorremmo non dover parlare più se non in sede di analisi storica, per conoscere meglio i meccanismi che hanno fatto di uomini comuni come lui la banda di assassini di cui è stato membro e per ragionare sulla storia che abbiamo alle spalle – per far sì che non si ripeta più. Ma non c’è dubbio che un corpo umano debba essere sepolto. Non solo perché questo è ciò che dalla preistoria in poi ha distinto la nostra specie dalle altre specie animali. Anche perché sarà la sepoltura, che ci auguriamo nella notte e nell’ombra, a chiudere alle nostre spalle la storia di una vita di vile ed efferata ferocia e ad allontanare da noi per sempre quella vivente provocazione che era la passeggiata dell’uomo nella città da lui insanguinata.
La Repubblica 13 ottobre 2013