Carlo Azeglio Ciampi: "Ecco come ho aderito alla Resistenza"
"[...] me ne andai, come ho detto, in Abruzzo, per passare le linee. Proprio a Scanno ritrovai Guido Calogero, che vi era stato confinato dal regime. Riprendemmo le nostre discussioni e gli chiedevo la ricetta per agire da antifascista senza diventare per forza comunista. Naturale punto d'approdo fu il partito d'azione. Quando arrivai finalmente dall'altra parte, a Bari, tornai ad indossare la divisa. La città era piena di fermenti. Vi era stato il convegno dei partiti antifascisti. Nelle ore libere frequentavo la libreria Laterza e m'infervoravo in discussioni con il leader azionista pugliese, poi del Pri, Michele Cifarelli, con il meridionalista Tommaso Fiore e suo figlio Vittore, ormai scomparsi. Quello, insomma, il terreno della mia iniziale formazione culturale".
«Non ho mai capito cosa intendano i teorici della "morte della Patria", che indicano nell'8 settembre la data di questo lutto senza ritorno. A sentir loro la Patria, l'idea di Patria, che allora sarebbe stata travolta, non è mai risorta. E noi cosa saremmo, dunque, oggi: italiani, cittadini senza patria? Certo, ogni storico può pervenire alle deduzioni che vuole. Ma se pone un quesito di quel genere deve anche giungere ad una conclusione e, soprattutto, non può ignorare eventi come Cefalonia. Come ho detto rivolgendomi idealmente ai Caduti della Acqui: " Decideste consapevolmente il vostro destino. Dimostraste che la Patria non era morta. Anzi, con la vostra decisione, ne riaffermaste l'esistenza. Su queste fondamenta risorse l'Italia"»
Ciampi è nel suo studio al Quirinale, appena sceso dall'aereo che lo ha portato in quell'isola dove morirono trucidati 6500 soldati italiani della Divisione Acqui che avevano respinto l'intimazione alla resa e si erano battuti contro le forze tedesche, preponderanti soprattutto per l'appoggio aereo e navale, di cui i nostri erano del tutto privi. Poiché sull'episodio avevo scritto nel passato alcuni articoli il Presidente accetta, non una intervista, ma di parlarmi dei sentimenti e delle ragioni che lo hanno mosso.
Facciamo assieme quasi una esegesi del discorso che ha pronunciato, un discorso inusuale, redatto di suo pugno e privo, persino, degli abituali preamboli e saluti iniziali ai presenti. No, questa volta, quasi si trattasse di un attacco sinfonico, il Presidente è entrato subito nel vivo, con tre frasi d'empito beethoveniano: «Decisero di non cedere le armi. Preferirono combattere e morire per la patria. Tennero fede al giuramento».
A conferma del climax Ciampi si sofferma a descrivere le ore che ha passato, in compagnia anche del Presidente ellenico, fra i drappelli in armi, greci ed italiani, la folta rappresentanza di reduci e partigiani, davanti al cippo ricordo, nei luoghi dei combattimenti, alle fosse comuni e in mare, sulla tolda della Garibaldi, in una mattina che sembrava venuta giù da una scenografia da melodramma epico, «tra squarci di sole, scrosci di pioggia, fulmini, raffiche di vento». Eppure, ripercorrendo il discorso, è possibile leggere in trasparenza i raccordi evidenti tra suggestioni emozionali e autentica passione politica, nel senso alto del termine
Un discorso di Capo dello Stato ma anche un discorso personale, del cittadino Ciampi, del giovane militare di allora, venuto oggi, ormai ottantenne, a rievocare «quelli che ci furono compagni della giovinezza». E me lo dice esplicitamente: «Questa volta ho proprio parlato di quello che ho in cuore da una vita».
Così la conversazione spazia tra la rievocazione generazionale, che accomuna il cronista e il Presidente, e il perché delle scelte di allora che lo affratellarono in «un uguale sentire» non solo ai soldati di Cefalonia, ma a quelli che «nell'Egeo, in Albania, in Corsica, in altri teatri di guerra, nei campi d'internamento si rifiutarono di piegarsi e di collaborare, mentre le forze della Resistenza prendevano corpo sulle nostre montagne, nelle città.»
E, per significarmi il valore che attribuisce al comportamento dell'Esercito mi mostra il libro che gli ha inviato Alessandro Natta, ex segretario del Pci, su «L'altra resistenza» (editore Einaudi), dedicato ai seicentomila militari internati dai tedeschi che rifiutarono di aderire a Salò.
Ma non si tratta dell'abbandono di un vecchio reduce all'onda commovente del ricordo. No,qui è anche il Ciampi di oggi che ripropone una periodizzazione della storia patria: «Quella scelta consapevole fu il primo atto della Resistenza di un'Italia libera dal fascismo».
Quindi non solo patrimonio del movimento partigiano ma di un arco assai più vasto che poggiò, dal primo giorno, su una parte nient'affatto trascurabile delle Forze armate, su «noi che portavamo la divisa, che avevamo giurato e che volevamo mantener fede al nostro giuramento e che ci trovammo d'improvviso allo sbaraglio, privi di ordini, in un travaglio causato dal colpevole abbandono». In proposito, nella nostra conversazione, il Presidente ci tiene a soffermarsi sull'otto settembre, dando, a differenza di molti e in polemica con quanti sostengono che con la fuga di Pescara il re avrebbe tradito il Paese (un altro dei punti su cui poggia la tesi della morte della Patria), un giudizio positivo sul fatto che la Corona abbia «assicurato la continuità delle istituzioni rifugiandosi in un territorio liberato dalla presenza tedesca. Il che permise al governo Badoglio di dichiarare guerra alla Germania, all'Esercito di ricostituirsi e partecipare al conflitto. E poi, con il cadere della pregiudiziale antimonarchica grazie all'iniziativa di Palmiro Togliatti, di costituire, con la partecipazione dei partiti antifascisti, prima il secondo governo Badoglio, poi, con la liberazione di Roma, il governo Bonomi, quindi, dopo il 25 Aprile, il governo Parri. Tutte tappe che segnano la continuità delle Istituzioni e della Patria. La condanna dei Savoia e di Badoglio resta senza scusanti per il modo con cui operarono, lasciando senza ordini e all'oscuro i comandi, senza guida l'Esercito e la Marina di fronte al prevedibile attacco tedesco. Basta pensare all'affondamento della corazzata Roma dove morirono 2000 uomini e l'ammiraglio Bergamini, capo della nostra flotta, fino a poche ore prima ignaro dell'armistizio».
Eppure, passato il primo momento di smarrimento, non solo molti, come Ciampi, furono in grado di orientarsi, guidati «dal senso dell'onore e dall'amor di Patria», ma essi furono sorretti dall'appoggio diffuso delle popolazioni nelle città e ancor più nelle campagne. Anche su questo punto l'insistenza non è pleonastica ma vuole sottolineare che la Resistenza non è riducibile, come tenta di presentarla la vulgata neorevisionista, ad un fatto minoritario riguardante solo il partigianato combattente, ma un vastissimo movimento che coinvolgeva nei sentimenti, e spesso nella concreta solidarietà, la maggioranza degli italiani. «Ricordo, solo per fare un esempio fra i tanti, che quando ero rifugiato a Scanno, un piccolo paese abruzzese in provincia di Sulmona, in attesa di passare le linee, nascosto con me vi era un ebreo romano, Beniamino Sadun, ma, mentre paventavamo l'arrivo di tedeschi o di repubblichini, nessuno temeva una spiata di qualcuno degli abitanti, tanto vivo era il sostegno che sentivamo attorno a noi. Del resto lì vicino passava quello che veniva chiamato il sentiero della libertà, un impervio passaggio attraverso il massiccio della Maiella, da dove tanti prigionieri angloamericani transitarono con l'aiuto dei nostri contadini. Di lì passai anch'io per riandare ad indossare la divisa nell'esercito dell'Italia libera. Spero di tornarci fra qualche mese ad una cerimonia di commemorazione che si sta organizzando».
Il riaffiorare dei ricordi segue un filo ideale: l'amor di patria si è radicato nella nostra generazione dall'«aver maturato i valori e le gesta del Risorgimento».Anche a Cefalonia Ciampi ha voluto ripeterlo: «La fedeltà ai valori nazionali e risorgimentali diede compattezza alla scelta di combattere». E'evidente che non si tratta di un cedimento alla retorica ma di un richiamo politico ai vincoli fondativi dell'unità nazionale, proprio quando essi vengono messi in discussione dall'oltranzismo leghista, comunque camuffato, e dal revisionismo dell'ala integralista cattolica che al convegno di Rimini di Comunione e Liberazione ha contestato i valori del Risorgimento, rilanciando la critica clericale e sanfedista all'unità d'Italia.
Un altro punto da valutare nel discorso di Cefalonia è la componente antifascista, anche in questo caso ben pertinente e non certo di scontato ossequio al «politicamente corretto». Per contro un richiamo a non confondere la pacificazione degli animi con il giudizio storico e con una specie di parificazione tra Salò e Resistenza: «In quell'estate del 1943 divenne chiaro in noi che il conflitto non era più fra gli Stati ma fra principi, fra valori. L'inaudito eccidio denota quanto profonda fosse la corruzione degli animi prodotta dall'ideologia nazista. Non dimentichiamo le tremende sofferenze della popolazione di Cefalonia e di tutta la Grecia, vittima di una guerra di aggressione». Con queste frasi, mi dice poi Ciampi, «ho voluto ricordare che la rottura dell'Italia col fascismo non si è prodotta l'8 settembre ma il 25 luglio, quando Mussolini venne defenestrato; in secondo luogo quale separazione, anche etica, passasse tra le forze in lotta; in terzo luogo, il carattere aggressivo che caratterizzava il fascismo. Questo non vuol dire coltivare gli odi. Proprio nei giorni scorsi una mia vecchia allieva (dopo la Liberazione feci per due anni l'insegnante) mi ha detto che ancora rammentava una lezione in cui auspicavo che la nuova Italia non si lasciasse trascinare nella spirale della vendetta. Mi viene, anzi, in mente ora un incontro in treno nel 1945 con un mio ex compagno di scuola. Gli dissi che ero andato ad arruolarmi al Sud, con l'esercito di Badoglio. Lui mi confessò di essere stato con le brigate nere. Convenimmo che per fortuna non ci eravamo incontrati in quei frangenti e ci stringemmo in un abbraccio»
Il Presidente va ancora indietro nei ricordi e conviene sul favore della sorte che lo portò molto giovane, poco più che sedicenne, alla Normale di Pisa dove ebbe come maestri uomini quali Luigi Russo, grande critico letterario e fra i maggiori esponenti dello storicismo, il filosofo Guido Calogero, fondatore del movimento liberal socialista, che confluirà nel partito d'azione e il marxista Cesare Luporini, filosofo della scienza: «Fu una stagione di formazione culturale e politica, ad un tempo. Poi ci fu la guerra ed io mi trovai nel ‘42 sottotenente in Albania. Solo per un permesso fortuito non fui colto dall'armistizio laggiù. Nel migliore dei casi avrei raggiunto i partigiani, come fecero tanti miei commilitoni, con in testa il nostro comandante, il tenente colonnello Mosconi, un nazionalista monarchico, seguace di Federzoni, che cadde combattendo contro i tedeschi. Dopo l'8 settembre con Furio Diaz (uno storico che diverrà anche sindaco comunista di Livorno) ci interrogavamo su come metterci in contatto con la resistenza. Venni a Roma, a casa di mio zio, il padre della scrittrice Paola Masino, che mi consigliava una prudente attesa, in un bell'appartamento di via Liegi 6. Non ne volli sapere e me ne andai, come ho detto, in Abruzzo, per passare le linee.
Proprio a Scanno ritrovai Guido Calogero, che vi era stato confinato dal regime. Riprendemmo le nostre discussioni e gli chiedevo la ricetta per agire da antifascista senza diventare per forza comunista. Naturale punto d'approdo fu il partito d'azione. Quando arrivai finalmente dall'altra parte, a Bari, tornai ad indossare la divisa. La città era piena di fermenti. Vi era stato il convegno dei partiti antifascisti. Nelle ore libere frequentavo la libreria Laterza e m'infervoravo in discussioni con il leader azionista pugliese, poi del Pri, Michele Cifarelli, con il meridionalista Tommaso Fiore e suo figlio Vittore, ormai scomparsi. Quello, insomma, il terreno della mia iniziale formazione culturale.Questo dovrebbe anche spiegare i motivi che mi spingono a rivalutare i simboli dell'amor di patria, della continuità storica, dei valori del Risorgimento. Perché, ad esempio, ho voluto inaugurare l'anno scolastico sull'Altare della Patria - lasciamo perdere se sia bello o brutto - non ignorando che lì c'è il monumento del re che unificò l'Italia e la scritta: all'unità della Patria e alla libertà dei cittadini».
Il presidente della Repubblica, prima di congedarmi, ci tiene a ribadire, a smentita di qualche forzatura giornalistica, che i passati governi non avevano affatto dimenticato Cefalonia: «Ci andarono e pronunciarono bellissimi discorsi sia Pertini che Spadolini. Ed anche il ministro socialista della Difesa, Lagorio. La strage era però sentita dagli italiani soprattutto come una conseguenza tragica dell'8 settembre, non come l'inizio della Resistenza. Di nuovo questa volta c'è stata la presenza del presidente della Repubblica greca. E' stato importante che si ricordasse la lotta comune condotta con i partigiani di quel paese e la nostra condanna della guerra di aggressione, intrapresa da Mussolini. E' stata una giornata di vero europeismo: in mezzo al Mediterraneo, in territorio ellenico e su una nave italiana».
(Intervista con Mario Pirani, la Repubblica, 3 marzo 2001)