Giacomo Matteotti

di Piero Gobetti 

Un anno e mezzo di dominazione fascista di Giacomo Matteotti

L'aristocratico del "sovversivismo"

Matteotti non fu mai popolare. Tra i compagni era tenuto in sospetto per la ricchezza: gli avversari lo odiavano come si odia un transfuga. Invece Matteotti era un aristocratico di stile, non di famiglia. Il suo socialismo non è la ribellione avventurosa del conte Graziadei che abbandona una famiglia secolare e, rompendo le tradizioni, accetta la vita dello studente spostato con l'amante intellettuale che diventerà la moglie inquieta della famiglia piccolo-borghese, come succede ad ogni buon nichilista - fedele al programma demagogico di andare al popolo.

lnvece Matteotti si iscrisse al Partito Socialista a 14 anni, probabilmente senza trovare grandi ostacoli in famiglia, forse anche ignorando la fortuna del padre - che del resto non era più che mediocre. Era socialista già il fratello Matteo, che lo precedette negli studi di legge e pare che lo iniziasse, con qualche influenza, nonostante la morte precoce, a trent'anni.

Il padre, di una famiglia di calderai, era venuto a Fratta Polesine dal Trentino 50 anni fa, quasi povero. S'era data al risparmio con la costanza e il sacrificio di un emigrante. La signora Isabella lo secondava dietro il banco del piccolo negozio di commestibili. I guadagni venivano investiti in terreni con l'avidità del profugo che s'aggrappa alla terra per istinto come per incominciare delle tradizioni. La fortuna della famiglia Matteotti prima della guerra era valutata a 800.000 lire di beni immobili, tutti sparsi nella provincia, in piccoli lotti, comprati d'occasione d'anno in anno. Era il frutto di anni di lavoro assiduo, di speculazioni oculate. Bisogna tener conto di questa tenacia provinciale per spiegarsi il carattere del figlio. Giacomino crebbe con questo esempio, con l'opinione di non essere ricco, con l'istinto della lotta dura, con la dignità del sacrificio. Al ginnasio e al liceo bisognava essere tra i primi; non perder tempo, non dissipare. 

Su questo fondo solido di virtù conservatrici e protestanti nacque il sovversivismo di Matteotti e nacque aristocratico per la solitudine. Le sue preoccupazioni iniziali erano esclusivamente scientifiche: ai facili successi avvocateschi preferì subito gli aridi studi di procedura penale e benché già socialista militante seguiva con predilezione la scuola dell'on. Stoppato, uno degli uomini rappresentativi del clericalismo moderato. Procedeva nella propria educazione per esigenze interiori.

In un partito che si ricorda dei paesi stranieri soltanto per la frettolosa rettorica dei congressi internazionali era tra i pochi che conoscessero la Francia, l'Inghilterra, l'Austria, la Svizzera, la Germania per viaggi di gioventù e aveva studiato l'inglese per leggere direttamente Shakespeare. Preso nella lotta politica, quasi nascondeva gelosamente questi istinti di filosofia che non erano troppo vicini allo stile dell'ambiente misoneista e grettamente parziale in cui gli toccava agire. Ma il segreto della vitalità di Matteotti era proprio questo: che si poteva sentire in lui, al di là delle sue azioni, chi gli parlasse a lungo e per scrutarlo, una vita interiore di impulsi vari e profondi, non messa in gioco mai per le poste troppo piccole della vita quotidiana, ma perpetua e segreta ispiratrice. Onde quel suo agire con riserbo e con fredda energia che incuteva soggezione ai compagni. La maschera rigida di Matteotti in pubblico nascondeva pensieri deliberati in solitudine, già sottoposti a tutti i tormenti dialettici del suo intemperante individualismo: era naturale che egli sentisse di doverli far prevalere impassibilmente, quando si incontrava nell'atmosfera facile della demagogia dei congressi, dove c'è sempre un improvvisatore capace di escogitare tesi medie e concilianti.

Matteotti cominciava a non essere conciliante per il suo sorriso beffardo e per la sua ironia perversa e spietata. Aveva sempre in mente delle conclusioni, non dei passaggi oratori o degli artifici di assemblea. Chi conosce in quale atmosfera di loquacità provinciale, di fiera della vanità e di consolazioni da desco piccolo-borghese, sia venuto crescendo il socialismo italiano, da Enrico Ferri a Bombacci, da Zanardi ad Arturino Vella, può veder chiaro come l'intransigenza di Matteotti - il quale in un'adunanza giunse a far sprangare le porte perché voleva che si terminasse la discussione prima che i convenuti se ne andassero a banchetto - doveva costituire un oltraggio ai tolleranti costumi dei buoni compagni e uno strappo a tutte le tradizioni sagraiole del tenero popolo italiano, felice e buontempone. E lo chiamarono "aristocratico" credendo di isolarlo.

II suo antifascismo

Giacomo Matteotti vide nascere nel Polesine il movimento fascista come schiavismo agrario, come cortigianeria servile degli spostati verso chi li pagava; come medioevale crudeltà e torbido oscurantismo verso qualunque sforzo dei lavoratori volti a raggiungere la propria dignità e libertà. Con questa iniziazione infallibile Matteotti non poteva prendere sul serio le scherzose teorie dei vari nazionalfascisti, né i mediocri progetti machiavellici di Mussolini: c'era una questione più fondamentale di incompatibilità etica e di antitesi istintiva. Sentiva che per combattere utilmente il fascismo nel campo politico occorreva opporgli esempi di dignità con resistenza tenace. Farne una questione di carattere, di intransigenza, di rigorismo. Così s'era condotto contro tutti i ministerialismi, senza piegarsi mai.

Nel '21 al prefetto di Ferrara che lo chiamava in un momento critico della lotta agraria aveva risposto per telefono: "Qualunque colloquio tra noi è inutile. Se lei vuole conoscere le nostre intenzioni non ha bisogno di me perche ha le sue spie. E delle sue parole io non mi fido". Non fu mai visto cedere alle lusinghe degli uomini del potere costituito né salire volentieri le scale della prefettura. S'era così creata intorno a lui un'atmosfera di astio pauroso da parte degli agrari: mentre lo stimavano capivano che l'avrebbero avuto nemico implacabile.

Il 12 marzo 1921 Matteotti doveva parlare a Castelguglielmo. La lotta si era fatta da alcuni mesi violentissima; s'era avuto in Polesine il primo assassinio. Quel sabato egli percorreva la strada in calesse e Stefano Stievano, di Pincara, sindaco, gli era compagno. Ciclisti gli si fanno incontro dal paese per metterlo in guardia: gli agrari hanno preparato un'imboscata. Matteotti vuole che lo Stievano torni indietro e compie da solo il cammino che avanza. A Castelguglielmo si nota infatti movimento insolito di fascisti assoldati; una folla armata. Alla sede della Lega lo aspettano i lavoratori e Matteotti parla pacatamente esortandoli alla resistenza: ad alcuni agrari che si presentano per il contraddittorio rifiuta; era di costoro una vecchia tattica quando volevano trovare un alibi per la propria violenza: parlare ingiuriosamente ai lavoratori per provocarne la reazione facendoli cadere nell'insidia. Matteotti si offre invece di seguirli solo e di parlare alla sede agraria: così resta convenuto e dai lavoratori riesce ad ottenere che non si muovano per evitare incidenti piu gravi.

Non so se il coraggio e l'avvedutezza parvero provocazione. Certo non appena egli ebbe varcata la soglia padronale - attraverso doppia fila di armati -, dimentichi del patto gli sono intorno furenti, le rivoltelle in mano, perché s'induca a ritrattare ciò che fece alla Camera e dichiari che lascerà il Polesine. - Ho una dichiarazione sola da farvi: che non vi faccio dichiarazioni -. Bastonato, sputacchiato non aggiunge sillaba, ostinato nella resistenza. Lo spingono a viva forza in un camion; sparando in alto tengono lontani i proletari accorsi in suo aiuto. I carabinieri rimanevano chiusi in caserma.

Lo portano in giro per la campagna con la rivoltella spianata e tenendogli il ginocchio sul petto, sempre minacciandolo di morte se non promette di ritirarsi dalla vita politica. Visto inutile ogni sforzo finalmente si decidono a buttarlo dal camion nella via. Matteotti percorre a piedi dieci chilometri e rientra a mezzanotte a Rovigo dove lo attendevano alla sede della Deputazione provinciale per la proroga del patto agricolo il cav. Pietro Mentasti, popolare, l'avvocato Altieri, fascista, in rappresentanza dei piccoli proprietari e dei fittavoli; Giovanni Franchi e Aldo Parini, rappresentanti dei lavoratori. Gli abiti un poco in disordine, ma sereno e tranquillo. Solo dopo che uscirono gli avversari, rirnproverato dai compagni per il ritardo, si scusò sorridendo: - I m'ha robà. Aveva riconosciuto alcuni dei suoi aggressori, tra gli altri un suo fittavolo a cui una volta aveva condonato l'affitto: ma non volle farne i nomi. Invece assicurò che mandanti dovevano essere il comm. Vittorio Pela di Castelguglielmo e i Finzi di Badia, parenti dell'ex sottosegretario di Mussolini.

Poiché si parlò e si continua a parlare di violenze innominabili che Giacomo Matteotti avrebbe subito in questa occasione è giusto dichiarare con testimonianza definitiva che la sua serenità e impassibilità, di cui possono far testimonianza i nominati interlocutori di quella sera, ci consentono di escludere il fatto e di ridurlo ad una ignobile vanteria fascista.

La storia di questo rapimento è tuttavia impressionante e perciò abbiamo voluto raccoglierne da testimonianze incontestabili tutti i particolari. Finché non ci sarà descritta l'aggressione di Roma il ricordo di questa prova può dirci con quale animo Matteotti andò incontro alla morte. Ne aveva il presentimento. A Torino il giorno della conferenza Turati, un profugo veneto gli chiese: - Non ti aspetti una spedizione punitiva da qualche Farinacci? Rispose testualmente cosi: - Se devo subire ancora una volta delle 13 violenze saranno i sicari degli agrari del Polesine o la banda romana della Presidenza.

Come segretario del Partito Socialista Unitario aveva condotto la lotta contro il fascismo con la più ferma intransigenza. Rimane il suo volume Un anno di dominazione fascista, un atto d'accusa completo, fatto alla luce dei bilanci, e insieme una rivolta della coscienza morale. E fu Matteotti a stroncare non appena se ne parlò ogni ipotesi collaborazionista della Confederazione del Lavoro: non si poteva collaborare col fascismo per una pregiudiziale di repugnanza morale, per la necessità di dimostrargli che restavano quelli che non si arrendono. Come segretario del partito pensava al collegamento, animava le iniziative locali, le coordinava intorno a questo programma. Compariva dove il pericolo era piu grave, incognito suo malgrado, a dare l'esempio. Talvolta osò tornare in Polesine travestito, nonostante il bando, con pericolo di vita, a rincuorare i combattenti.

II volontario della morte

Giacomo Matteotti 2

Egli rimane come l'uomo che sapeva dare l'esempio. Era un ingegno politico quadrato, sicuro; ma non si può dire quel che avrebbe potuto fare domani come ministro degli interni o delle finanze: ormai è già nella leggenda. Ho una lettera di un lavoratore ferrarese, scritta il 16 giugno:

«Come puoi figurarti qui non si parla d'altro e i giornali non fanno in tempo ad arrivare in piazza perché sono strappati ai rivenditori e letti avidamente. La deplorazione è unanime e il risveglio non più nascosto. Pare che l'incantesimo della paura sia infranto e la gente parla senza titubanze. La perdita però porterà i suoi frutti di libertà e di civiltà che renderanno allo spirito eletto del nostro Grande la pace e la gioia per il sacrificio compiuto. Matteotti era un uomo da affrontare la morte volontariamente se questo gli fosse sembrato il mezzo adatto per ridare al proletariato la libertà perduta».

Non si può immaginare una commemorazione più spontanea e più generosa. Come se i lavoratori abbiano sentito in lui la parola d'ordine. Perché la generazione che noi dobbiamo creare è proprio questa, dei volontari della morte per ridare al proletariato la libertà perduta.

Cenni biografici

Matteotti

Nacque a Fratta Polesine il 22 Maggio 1885 da famiglia di ricchi borghesi oriunda del Trentino. Studiò al ginnasio-liceo «Celio» di Rovigo poi all'Università di Bologna laureandosi in giurisprudenza. Continuò gli studi di diritto sotto la guida dell'onorevole Alessandro Stoppato del quale praticò lo studio legale. Pubblicò un grosso volume      (« La recidiva » - Saggio di revisione critica con dati statistici) e scrisse altri studi penali e di procedura su « La Rivista di diritto e procedura » diretta dall'on.  Eugenio Florian, ed altrove. Era sua intenzione conseguire la libera docenza in diritto penale e stava preparandosi da lungo tempo, come le sue molteplici occupazioni gli consentivano, per sostenere la tesi per la docenza.

Non esercitò mai l'avvocatura, però sostenne brillantemente le ragioni dell'on. Galileo Beghi presso la Giunta delle elezioni in contraddittorio con illustri avvocati del foro romano ottenendone la convalidazione a deputato per il collegio di Rovigo (Legislatura XXV) invece del comm. Maneo già proclamato eletto.

Fin da giovanetto si sentì attratto alla politica e si inscrisse nel partito socialista. Era già socialista il fratel suo maggiore dott. Matteo - uno studioso di problemi sociali, autore di opere sulla disoccupazione, ecc. - il quale, insieme a Tullio Maniezzo e ad Emilio Zanella lo iniziò alla vita politica ed ebbe su di lui qualche influenza.

Giacomo Matteotti fondò Sindacati operai, Cooperative, Circoli socialisti, riorganizzò in diverse riprese la Camera del Lavoro del Polesine. La sua assistenza alle organizzazioni operaie fu assiduissima per oltre vent'anni. Giovanissimo, esordì come amministratore comunale a Villamarzana nelle funzioni di Sindaco e fu poi, prima e dopo la guerra, Consigliere comunale e Assessore a Fratta Polesine ed in un'altra decina di comuni della provincia: Rovigo, Lendinara, Badia, San Bellino, ecc.

Partecipò assiduamente ai lavori del Consiglio Provinciale di Rovigo come Consigliere per il mandameuto di Occhiobello: leader della minoranza socialista. Ricoprì la carica di presidente della Deputazione provinciale nel breve periodo di amministrazione socialista nel 1914. Al Consiglio provinciale pronunciò un discorso contro la guerra il 5 giugno 1916 che gli valse la denunzia e la condanna per disfattismo. Fu poi assolto in Cassazione dove col patrocinio di G. Guarnieri-Ventimiglia sostenne la tesi della immunità dell'oratore in sede di Consiglio Provinciale.

Escluso dal Consiglio provinciale per sopraggiunte sue incompatibilità, vi ritornò con le elezioni dell'autunno 1920 che diedero ai socialisti 38 seggi su 40. I problemi scolastici furono oggetto di suo assiduo studio. Opera diligente ed assidua diede in favore della scuola nel Consiglio provinciale scolastico di Rovigo. Il Congresso dei Comuni Socialisti - tenutosi in Bologna il 16-17 Gennaio 1916 - gli diede occasione con due discorsi di farsi conoscere ai compagni di tutta Italia per la profonda competenza ed esperienza dei problemi amministrativi nelle Amministrazioni locali. Fu quindi nominato segretario del Comitato direttivo della Lega dei Comuni socialisti.

Pubblicò parecchi saggi sulla finanza comunale, e un piano completo di riforma. La "Critica Sociale", "L'Avanti!", "La Giustizia", "La lotta", di Rovigo, lo ebbero a collaboratore assiduo. Durante la guerra fu per tre anni soldato semplice, perseguitato ed internato a Campo Inglese per i suoi precedenti politici. Nel 1920 egli istituì l'ufficio di consulenza legale e di ispezione amministrativa per i 63 Comuni del Polesine allora tutti conquistati dai socialisti, facendone affidare la direzione al deputato provinciale Enea Ferraresi, già sindaco di Stienta, competentissimo in materia.

Fu appassionato dei problemi della pubblica istruzione. La fondazione di biblioteche popolari e scolastiche, e il riordinamento delle scuole primarie dei comuni rurali del Polesine è precipua opera sua. Fu eletto deputato al Parlamento per la prima volta nel 1919 per il collegio di Ferrara-Rovigo e rieletto nel 1921 per il collegio di Padova- Rovigo. Nelle elezioni di quest'anno era stato eletto in due circoscrizioni (Veneto e Lazio).

Alla Camera frequentò i lavori legislativi pronunciando apprezzati discorsi in materia finanziaria. Come membro della Giunta del Bilancio e della Commissione di Finanza stese parecchie relazioni. Rigido difensore dell'Erario in materia di spese e della libertà in materia doganale. Fu Segretario della Commissione per la riforma burocratica e relatore della minoranza contro la concessione dei pieni poteri al Governo di Mussolini.

Fu tra i deputati più combattuti dal fascismo, oggetto di dimostrazioni ostili e di violenze a Ferrara nel gennaio 1921, quando in momenti difficili vi soggiornò per assistere quelle organizzazioni operaie e le Amministrazioni locali; a Castelguglielmo, a Siena, a Varazze, a Palermo, ecc. Gradualista, militò sempre nell'ala destra del partito socialista. Era Segretario del Partito Socialista Unitario fin dalla sua fondazione (Ottobre 1922). Come tale partecipò anche a Congressi internazionali a Berlino, a Bruxelles ecc. in rappresentanza dei socialisti italiani. L'on. Matteotti aveva sposato la signora Velia Titta, sorella del celebre baritono Titta Ruffo, ed era padre di tre bambini.

Estratti da Giacomo Matteotti  di Piero Gobetti, 1924, Piero Gobetti editore