Leone, uno fra i primi capi dell'opposizione al fascismo
di Tommaso Fiore
A ottant’anni dalla scomparsa del grande intellettuale antifascista lo ricordiamo con un affettuoso ritratto dall'umanista altamurano compagno di Confino, apparso sul quotidiano socialista l'Avanti del 1959.
Leone Ginzburg, opera di Carlo Levi
Gli hanno strappato i denti ed uno ad uno, gli hanno strappato le unghie ad una ad una, gli hanno spezzato le costole ad una ad una. Queste orribili notizie corsero dopo l'arrivo degli alleati a Roma. Non era vero; queste torture le aveva invece subite Albertelli. Invece Ginzburg venne a mancare cosi, per stanchezza, a Regina Coeli.
Si sa, la fame, i disagi, le sevizie anche, chi sa quali, il cuore a un certo punto cessó di battere. Come Gobetti, disse, poco prima di spegnersi: «Il Paese ha bisogno di martiri per risorgere». La madre la sorella intanto, dal confino abruzzese, imploravano notizie di lui. Non fu facile far intendere loro che ormai avevano perduto ogni ragione di vivere: Leone era tutto per loro.
Lo incontrai la prima volta, Leone, per le scale di casa Croce, a Napoli, il '32 aveva vinto la cattedra universitaria di letteratura russa, a 23 anni. Di particolare aveva ciglia enormi, come tutti i suoi, parlava a stenti, per lo sforzo di riflettere, ma era dritto e slanciato come un cipollo, sano e forte fin nelle midolla. Chi sa quante cose arrebbe fatto nella vita.
Da lontano seguii la sua attività, i suoi studi su Pusckin, Tolstoj, Turghéniev, Dostojevskij, anche su minori, anche sull'ultima poesia russa, raccolti poi dall'Ed. Einaudi il '48. Era un lettore europeo, come lui dirà di Pusckin, metterà a profitto la sua conoscenza delle letterature classiche e di quelle moderne per illuminare le creazioni del genio russo, come non so quanti oggi saprebbero fare. E possedeva già un metodo suo, che non era quello crociano, ma in gran parte francese. Certo dal Maestro aveva appreso a cogliere l'opera d'arte nella sua essenza, a studiarne l'unità, distinguere fra visione del mondo e sovrastrutture teoretiche, a vedere insomma ciò che in uno scrittore nasce come arte magari contro la volontà di lui. Di particolare Leone aveva l'esame di certi punti essenziali, rivelatori dell'arte, e il senso del gusto nella sua evoluzione storica. Come mai si era formato così bene?
A Torino il '39 sua sorella, Marussia, mi raccontò la loro storia. Russi di Odessa. La madre aveva lasciato in Italia questo ragazzo, per paura dei pogroms, le uccisioni periodiche di allora. Il ragazzo era sempre il primo negli studi, nè più nè meno che a Odessa suo padre Teodoro nei commerci. Scoppiata la rivoluzione, Marussia, studentessa a Pietrogrado, fu messa a capo di un comitato per ricevere gli esuli, e siccome questo comitato non possedeva il becco di un quattrino, lei dava le proprie camicie a chi ne avera bisogno. Arrestato il padre, la signora Vera lo sostitul in carcere, secondo una legge russa.
Così furono costretti ad migrare. A Torino intanto il ragazzo era italiano, parlava magari tre o quattro lingue moderne ma non il russo. Raggiunto dai suoi, la sorella gli insegnò la lingua materna, coi proverbi dei contadini, gli lesse 4 poeti, gli dipinse la vita del loro Paese: senza di lei Leone sarebbe stato un uomo monco, monco della cultura russa. Ancora molti anni dopo, quando lui aveva famiglia a sè, verso l'im- brunire la vecchia madre lo tratteneva un'oretta al giorno al telefono: non si stancava di plasmarne l'anima alle virtù tradizionali della stirpe, della famiglia e della patria lontana. A questo insegnamento si accoppiò l'altro di Augusto Monti, suo professore al liceo e maestro di antifascismo a tutta Torino. Si capisce che il '34 fosse arrestato e condannato dal Tribunale speciale, come partecipe del movimento di «Giustizia e Libertà». Poi, durante la guerra, riuscii a raggiungerlo in Abruzzo, nel villaggio di Torimparte, se ben ricordo. La polizia aveva proibito alla madre e alla sorella di abitare insieme con lui. Egli stava solo, con la moglie, la signora Natalia, lavorava tranquillo, da filologo da certosino, come sempre; non per altro era stato discepolo di Rostagni, di Neri. Rimanemmo insieme un'oretta appena. A mezzogiorno dovera vedere il maresciallo dei RR. CC., e, naturalmente, lo avrebbe avvertito della mia presenza. Era sempre lui leale anche verso i suoi carcerieri. Con lieta sorpresa capii che la sua apertura politica verso il mondo sovietico era più larga della mia, pareva non avesse alcuna riserva da fare.
Allorchè toccò anche a me di essere spedito al confino, a Orsogna mi trovai per fortuna fra le braccia di Marussia e della vecchia madre. Anche costei era alta dritta, come il figlio! Non passava giorno che non venissero a trovarmi, a curarmi come uno di casa. E parlavamo di Leone ore ed ore, senza mai stancarci. Lei era straordinariamente penetrante.
A parer mio Leone resta uno degli esemplari più perfetti dell'uomo europeo, dell'europeo di oggi e insieme dell'italiano di oggi. Non già perchè dominasse criticamente le letterature europee, meglio dei suoi maestri, ma per due canali della sua formazione spirituale. Dalla ma- dre gli era venuto il senso della sua umanità supernazionale, umile severa, senza frasi o gesti, anonima, paga al mestiere più umile, pur di far meglio degli altri, di segnare una strada. Su questo fondo solo la cultura italiana poteva fornirgli lo strumento per lavorare con quella chiaroveggenza alle sue critiche e alle sue traduzioni, a correggere bozze come nessun altro in Italia o a metter mano a una nuova casa editrice che superasse altre per sua ricchezza.
Ma non poteva restare filologo puro, di quelli che, col pretesto della tecnica, sono disponibili per Dio o per il diavolo, per la libertà come per la tirannide. Sicché già di su i banchi del liceo era uno dei capi, il primo sempre. La sua cultura politica era quella di Gobetti, quel liberalismo che trovava la libertà nei movimenti delle masse, quella del partito d'Azione, che raccoglieva, allora, la maggior parte dell'intelligenza italiana, scusate se è poco! Naturalmente anche a Roma, sotto i tedeschi, si trovò il primo fra i suoi e uno fra i capi dell'opposizione, e si assunse, prima di Muscetta e di Levi, la direzione dell'Italia libera. Ecco perchè i fascisti e tedeschi non lo risparmiarono, noi invece piangiamo l'atroce fine del giovane capo.
L' Avanti, 5 febbraio 1956