Tommaso Fiore: un protagonista della cultura antifascista
di Giovanni Papapietro
Due furono le ispirazioni profonde dell'opera culturale dell'azione politica di Tommaso Fiore: un naturale sentimento del popolo come originario terreno di ogni creazione storica, perciò una inquieta libera appartenenza ad esso; e una acre vena di illuminismo critico, impietoso, spesso beffardo, vigile presenza della ragione della cultura sul ribollire del populismo anarchico.
Quel sentimento del popolo egli acquistò dall'infanzia povera di Altamura, dal mesto racconto di sua madre che la prima notte di nozze scopri la spalla del marito muratore corrosa dai tufi che aveva trasportato per anni: e se ne fece poi guida alla comprensione di poeti nei quali il popolo è sempre affetto elegiaco e libertà: Pascoli, di cui fu alunno Pisa, « l'anarchico dagli occhi azzurri », Virgilio, che egli descrisse con una strenua ma nascosta sapienza di filologo, con un'acuta sensibilità un vaporoso gusto della parola, nei quali si fondeva tuttavia il suo terrestre caldo amore degli umili dei «nati a pascersi di biade (fruges consumere nati). e che non piacque ai critici ufficiali del fascismo come non piaceva la latinità di Concetto Marchesi. che aveva trasportato anch'egli nello studio della poesia antica la lirica operosità la dolorante pena del popolo contadino del Sud.
In collegio legge Voltaire e Max Nordau. Ma se il secondo gli dà una oscura suggestione di rivolta individuale, è il primo che si imprimerà nella sua coscienza intera, di letterato di uomo civile. Questa vena di ragione illuministica lo ripercorrerà poi fino alla sorgente, mescolandola alle acque del suo populismo. Nascono cosi la sua traduzione dell' Utopia di Tommaso Moro, sogno di una rigenerazione sociale alle soglie dell'età moderna, con una introduzione che rivela un signorile dominio della cultura europea della Rinascenza; poi, molti anni più tardi, la traduzione delI' «Elogio della pazzia» di Erasmo da Rotterdam. Questa nobilissima ascendenza culturale alimenterà la sua naturale severità morale il composto intimo pessimismo che tutti i suoi scritti rivelano e che ha avvertito chiunque lo abbia conosciuto. Il suo ostinato attaccamento al lavoro, il suo impegno a produrre al di là di ogni fisico divieto, la sua caparbia presenza nella vita, i suoi squillanti scoppi dirisa sempre e solo beffarde, non impedivano di avvertire come su lui gravasse, sempre più insistente cupa, l'ombra della morte che lo aveva accompagnato per tutta la vita, e che ne aveva ispirato nell'intimo l'opera intera forse la stessa ricerca delle fonti culturali, una esperienza morale che egli ha in comune con una generazione di uomini colti del '900, che hanno conosciuto le trincee della terra del '15 - '18, la prima guerra imperialistica da essi scambiata per l'ultima del Risorgimento, e che si ritrova in «Eroe svegliato asceta perfetto» di T. Fiore come nella prefazione di Omodeo alle lettere dei combattenti della prima guerra mondiale, in «Vita disciplina militare» di L. Russo. nel diario di guerra di C. E. Gadda.
La morte come controcanto severo della vita, dell'opera: ecco dunque un altro tema meno scoper-to ma profondo in lui. che lo rivela figlio per intero di un’esperienza culturale europea e insieme della più meditata e feconda cultura del Novecento: è infatti dalla «Ginestra leopardiana», ore questo senso dell'inevitabile fato dell'uomo ispira la decisione eroica, che egli trasse il titolo per il suo libro più famoso: «Un popolo di formiche». il popolo infaticabile ed eroico della sua terra pugliese.
A questo popolo di formiche che egli argutamente un giorno, durante un'assemblea popolare, indicò un capo. «Un formicone»: Giuseppe Di Vittorio, a cui era forse più vicino di quanto non sembrasse per la comune origine proletaria, per il dolore comune dell'infanzia, per la comune nozione «fisica» del popolo che non ha bisogno di mediazioni di pensiero per essere conosciuto e amato.
E' difficile allora ascrivere questa figura a una sola ascendenza. Fu idealista, ma come il «Verga» di Luigi Russo. il suo «Virgilio» devia verso una nozione di popolo che al Croce era del tutto ignota. D'altronde al Croce doveva apparire un immedicabile pasticcio (e ne scrisse infatti apertamente)
il suo tentativo di componimento del liberalismo e del socialismo, in cui c'era un proposito di calare in un atteggiamento pratico di progresso sociale l'idea madre della libertà che il Croce aveva offerto alla coscienza antifascista di Europa. Onde la sua rottura con il maestro quando a questi – 50 - sono parole dell'irriverente discepolo - «piacque di calare l'idea hegeliana della libertà nella forma del suo medico di famiglia» vale a dire del partito liberale diretto a Napoli dal medico di casa Croce.
Fu salveminiano, e lo fu nell'intimo sempre, nello stile, nell'impennata moralistica; ma gli mancò l'animo per così dire pragmatistico dell'agitatore di Molfetta forse anche l'irruenza della lotta politica, in lui sempre frenata da una ironia talvolta paralizzante, da un pessimismo che talvolta corrodeva la volontà. Il suo meridionalismo contiene forse più la curva amara dei pessimismo di Giustino Fortunato che l'empito vigoroso di Gaetano Salvemini. Si leggano gli scritti da qualche anno raccolti sotto il titolo di «Incendio al Municipio» datati intorno agli anni dell'avvento del fascismo, si vedrà come questa amarezza privi spesso la pagina di ogni luce di speranza. Nelle lettere a Gobetti e a Gangale, d'altronde, la speranza è solo in un finale versetto di intonazione biblica, proiettato nell'avvenire («Quando il lavoro sarà libero... »); e vi si respira non tanto l'aria calda della lotta quanto quella tagliente del giudizio morale, dell'ironia raggelante: unico rifugio alla disperazione, il lavoro ricurvo del contadino sulla terra, e la consolante dolcezza del paesaggio trasformato dall'uomo.
Fu socialista, ma la sua giovanile lettura di Labriola, l'esperienza del confino con Amendola e Grifone, la scoperta di Gramsci che da un suo articolo (firmato Till Eulenspiegel) aveva tratto le mosse per i suoi «Temi della questione meridionale», la partecipazione attiva all'ultimo trentennio di lotta politica, le sue a le volte impreviste aperture a tutte a le produzioni della coscienza e della lotta di classe, valsero a farne però sempre soprattutto un uomo morale, un uomo che amava il socialismo e operava per esso più per intimo bisogno della coscienza e per fraternità col popolo lavoratore, da cui riceverà il suo incrollabile spirito unitario, che per cognizione delle leggi dell'operare storico.
A lui ci inchiniamo ora che spento, ricordandoci del suo grande impegno di antifascista. Di meridionalista, di uomo di moderna cultura. E accomuniamo a lui, come egli ha fatto, straziandosene, per trent'anni, il ricordo dell'ora più tragica della sua vita; quando, uscendo dal carcere fascista, più lieto della libertà di tutti che della sua liberazione, dove piegarsi sul corpo senza vita del suo figlio diciassettenne Graziano, non ultimo della grande nidiata di cui andava orgoglioso, che la belva fascista gli aveva stroncato con altre decine di giovani mentre andavano esultanti a riceverlo. Di questo gli siamo grati, siamo in debito con lui: perché se non avesse dato che questo alla libertà, avrebbe già dato molto.
L' Unità 6 giugno 1973